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Torino tra crisi e ripresa
La capitale mancata
Torino perde il ruolo di capitale del
Regno d'Italia, trasferita a Firenze,
nel 1864.
Il colpo è duro, dagli effetti
pesanti, segna la fine del ruolo guida,
del primato di capitale appena acquisito,
scatena angoscia e ribellione, genera
nell'immediato una crisi economica. Lo
spostamento di uffici pubblici, della
zecca, di banche, di assicurazioni, di
società d'affari, il ridimensionamento
di officine statali ferroviarie e militari
determina una caduta nelle varie attività
che costituiscono una sorta di indotto
legato alle funzioni centrali della Torino
capitale, dal commercio all'artigianato,
dall'edilizia all'industria.
Tuttavia la crisi si rivela meno pesante
di quanto inizialmente temuto. La città
non si avvia sulla strada di un declino
irreversibile, non si declassa al ruolo
di modesto centro periferico. Pur in assenza
di una rapida e chiara ridefinizione di
funzioni e certo lontana dal profilo di
grande nucleo produttivo - che acquisirà
solo tre-quattro decenni dopo - Torino
riesce a mettere in campo un mix di risorse
in grado di reggere alla crisi e di farle
mantenere le posizioni, mentre conserva
l'assetto di città dalle dimensioni
e funzioni non marginali.
Segnali di crescita emergono dai dati
riferiti agli addetti all'industria torinese,
sebbene di non facile lettura per la genericità
delle rilevazioni, che accomunano professioni,
mestieri e settori diversi, lontani spesso
da una continuativa attività industriale,
a maggior ragione intesa come sistema
di fabbrica. Dai 47 000 addetti nel 1871
si risale a 62 000 nel 1881 e a 81 000
nel 1898, con un trend certo non dinamico
se riferito all'andamento complessivo
della popolazione (di cui gli addetti
all'industria continuano a coprire una
quota stabile, tra il 22 e il 24 per cento)
ma comunque con una crescita del 70 per
cento, pur diluita su un quarto di secolo,
e con qualche significativa variazione
interna, come la crescita del comparto
metalmeccanico a fianco del tessile.
Non mancano i periodi di crisi, anche
grave, legati in misura crescente all'andamento
di un'economia nazionale, ma del Nord-Ovest
in particolare, fortemente inserita nel
ciclo internazionale: dalla grande depressione
- con effetti soprattutto sul settore
agricolo fin dalla seconda metà
degli anni Settanta - alla guerra doganale
con la Francia, che deprime alcune esportazioni
italiane come la seta ed esplode nel 1887
a seguito della svolta protezionistica
successiva di un decennio alla prima tariffa
del 1878. E inoltre, con conseguenze ancor
più pesanti, si scatena la crisi
del mercato immobiliare e si sgonfia la
bolla speculativa connessa, che travolge
larga parte del risparmio privato locale
e i principali istituti torinesi tra il
1887 e il 1888 e genera un grave collasso
dell'economia cittadina, depressa per
circa un decennio.
Eppure la società e l'economia
torinese non ne vengono travolti, se,
anche tramite nuovi apporti, sono in grado
di saper cogliere con prontezza la ripresa
del ciclo a partire da fine anni Novanta.
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I punti di tenuta.
Cotone e metalmeccanico
In effetti, al di sotto e malgrado le
emergenze critiche, si mantiene in alcune
componenti, mentre si amplia e si muove
dinamicamente in altre, un insieme tenace
e articolato di risorse imprenditoriali,
lavorative, tecnico-scientifiche, amministrative,
culturali, e anche finanziarie, che costituiscono
l'essenziale retroterra, la base fondamentale
da cui far partire una traiettoria di
sviluppo segnata dall'industria, meccanica
in primo luogo.
Ne fanno parte le esperienze imprenditoriali
emerse nel settore cotoniero, che al momento
della svolta protezionistica, nel 1887,
offre già un profilo rinnovato
e un trend in crescita che la protezione,
l'allargamento della domanda interna e
l'esportazione all'estero contribuiscono
ad accentuare. L'incremento dimensionale
degli impianti; le società per
azioni con partecipazioni incrociate di
capitali; la forte presenza di investitori
e imprenditori stranieri, tedeschi e svizzeri
soprattutto, che contribuiscono a fare
di Torino la terza colonia elvetica in
Italia e del ceto imprenditoriale torinese
e piemontese una variegata realtà
multinazionale e multireligiosa per la
consistente presenza di protestanti; l'approccio
intersoggettivo, tendenzialmente sistemico,
ai problemi della crescita di solide strutture
d'impresa a più elevata meccanizzazione
e dimensione di scala; gli interessi diretti
e indiretti in alcune società bancarie
e di servizi, non escluse le ferroviarie
e le nascenti imprese elettriche, e le
ricadute per effetto dello sviluppo del
settore su altri comparti, come il meccanico:
sono queste le componenti del profilo
e del ruolo dei cotonieri, che travalicano
i confini del settore in sé, ne
fanno un settore decisivo di un sistema
imprenditoriale in via di formazione.
Si fa strada anche il comparto metalmeccanico,
che a Torino occupa 14 000 addetti sugli
81 000 dell'intera industria al 1898,
pari ancora a un modesto 17 per cento,
comprensivo anche degli artigiani, e tuttavia
non mancano alcune significative novità
nelle produzioni di materiale ferroviario
e tranviario, di motoristica, di elettromeccanica,
di cavi, di biciclette, di macchine utensili
e per l'industria, di utensileria, di
semilavorati in ghisa, ferro e acciaio.
Il peso crescente del settore metalmeccanico
a Torino, almeno a confronto del resto
del Piemonte, e la sua tendenza a incrementare
le dimensioni di fabbrica nell'ambito
della struttura polisettoriale, non monoproduttiva
dell'area torinese a fine secolo, emergono
già dai dati riferiti al 1890,
quando l'area torinese registra una presenza
di aziende che lavorano i metalli quasi
doppia (22,5 per cento) di quella del
Piemonte orientale (12,7 per cento) e
meridionale (14,7 per cento). E questa
presenza aumenta se riferita al solo territorio
comunale e agli stabilimenti superiori
a 10 dipendenti nel 1889, quando ammontano
a 81 con 8 776 addetti, pari al 40 per
cento del totale contro il 19 per cento
del tessile, il 9 per cento di cartiere
e industrie grafiche, il 6 per cento di
cuoio e pelli e il 5 per cento della chimica.
Nell'anno successivo, il 1890, Torino
concentra il 72 per cento dell'industria
metallurgica e meccanica dislocata nella
sua area d'influenza e articolata su imprese
a prevalente capitale familiare, in grado
di reggere pertanto alla grave crisi finanziaria
e bancaria a cavallo tra gli anni Ottanta
e Novanta.
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Elettricità
e banche.
La crisi, del resto, se da un lato
sottrae potenziali risorse alla crescita
industriale e d'impresa, dall'altro, sul
fallimento degli investimenti immobiliari
e sui conseguenti smobilizzi a fronte
di prezzi cedenti del mercato fondiario,
finisce per sollecitare un interesse meno
casuale per l'investimento azionario industriale,
come emerge dallo sviluppo di un settore
per molti versi strategico quale l'elettrico,
che nasce a Torino dalla metà degli
anni Ottanta e senza ritardo rispetto
ad altre aree europee.
Anche nel caso di questo nuovo settore,
agisce un retroterra di risorse umane,
tecnico-imprenditoriali e finanziarie
locali su cui si innesta, decisivo, l'intervento
tedesco. Il settore elettrico, pur tra
molte difficoltà iniziali, si impianta,
innova e stimola a sua volta processi
di modernizzazione non solo industriale
in quanto si sono già radicati
nell'area alcuni specifici e fondamentali
prerequisiti endogeni, essenziali nel
sostegno anche di altre attività
e in generale per la definizione di un
sistema locale territoriale e imprenditoriale
più solidamente strutturato. E'
il caso della leva politico-amministrativa,
che interviene tramite iniziative sperimentali
e promozionali, come in occasione dell'Esposizione
generale del 1884, con la stipula di convenzioni
con le imprese elettriche per il trasporto
e la distribuzione dell'energia e per
le tranvie, con i contributi a istituzioni
statali di formazione, quali la Scuola
di applicazione per ingegneri, operativa
dal 1860, e il Museo industriale, in attività
dal 1862, che genera nel 1888 la Scuola
superiore di elettrotecnica diretta da
Galileo Ferraris.
I nuovi e recenti comparti, l'elettrico
e il meccanico, necessitano infatti di
più estese competenze tecnico-scientifiche
anche a livello dirigenziale e imprenditoriale
e le istituzioni accademiche locali contribuiscono
nel fornire risorse professionali a iniziative
dinamiche nei settori più innovativi.
Nomi di rilievo della nuova imprenditoria
meccanica sono di formazione ingegneristica
e soprattutto nell'industria elettrica
ed elettromeccanica, tra imprenditori,
progettisti, dirigenti, consulenti, la
presenza qualificata - e positivamente
valutata a livello internazionale - di
ingegneri laureati a Torino è tutt'altro
che secondaria.
Inoltre l'industria elettrica, sia in
campo commerciale che meccanico, offre
occasione di investimento interessante
per capitali di origine finanziaria e
industriale di nuova provenienza, dai
cotonieri e dai finanzieri immobiliaristi,
e in parte come reimpiego e riconversione
di risorse di meno recente formazione,
dai setaioli in primo luogo, durante e
dopo la crisi bancaria dei primi anni
Novanta.
E nella banca, nel settore del credito
e degli affari, ovvero proprio in quel
delicato snodo dello sviluppo entrato
in crisi per quasi un decennio dopo il
drammatico biennio 1887-1888 e con la
crisi finanziaria del 1893-94, va cercato
un altro fattore essenziale della tenuta
torinese attraverso la crisi. Se da un
lato infatti le banche, e quindi larga
parte del risparmio locale, subiscono
duri colpi come effetto della crisi, sì
da far perdere definitivamente a Torino
il primato di centro di riferimento della
finanza nazionale, dall'altro non tutte
si trovano nelle stesse difficili condizioni,
più gravi per il Banco di sconto
e sete che per la Banca di Torino, meno
coinvolta nelle speculazioni immobiliari,
e soprattutto una parte consistente dei
banchieri privati mantiene strategie autonome
all'insegna della diversificazione che
consentono ai loro capitali di attraversare
la crisi dei primi anni Novanta e di contribuire
alla ripresa successiva. Sono questi banchieri
privati, come Geisser, Ceriana, Kuster,
e poi i Deslex, i Sormani, i De Fernex,
i Donn, a entrare nelle nuove società
elettriche, meccaniche e automobilistiche
negli ultimi anni Novanta, quando anche
il Banco di sconto e sete, ricapitalizzato
nel 1896 e nel 1898, torna ad assumere
un ruolo propulsivo di rilievo e diventa
la terza banca privata italiana, con strategie
da banca mista come le altre più
solide esperienze coeve, il Credito italiano
e la Banca commerciale, anch'essa impegnata
nel sostegno alle imprese torinesi, tradizionali
e nuove.
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L'industria meccanica
al centro di un sistema polisettoriale
Al finire dell'Ottocento,
quando si avvia la nuova fase che
nel giro di un ventennio vede Torino
emergere come capitale dell'industria
automobilistica, l'area torinese
assume tratti specifici che la differenziano
da altre zone della regione.
Mentre l'energia elettrica libera
le imprese dai vincoli ambientali
e localizzativi delle cadute d'acqua
in zone dove solo parzialmente si
è sperimentato lo sviluppo
vincente del vapore, il nucleo urbano
di Torino tende già a polarizzare
insediamenti produttivi su di sé
e attorno, ma non tanto negli immediati
dintorni quanto in un'area d'influenza
comprendente le basse valli Pellice,
Chisone, della Dora Riparia, Stura
e Orco. Torino offre adesso economie
di agglomerazione sganciate da fattori
geo-ambientali e definite in termini
di strutture finanziarie, decisionali
e tecnologiche interdipendenti,
e di culture imprenditoriali, tecniche
e di mestiere artigianale ed operaio.
L'effetto attrattivo di Torino è
inoltre agevolato dal protezionismo
industriale perseguito dalla politica
daziaria dell'autorità locale,
che spinge alla concentrazione e
al richiamo nei confini cittadini
di imprese manifatturiere e di semilavorati,
e favorito altresì dall'assenza
di un solido tessuto connettivo
intermedio come nel caso milanese.
In questo periodo, nel quindicennio
tra la fine del Novecento e la Grande
guerra, Torino ridefinisce in forma
stabile e durevole nel tempo il
proprio ruolo all'insegna di uno
sviluppo che fa perno sull'industria
e sull'industria meccanica leggera
in particolare, con al centro le
produzioni variamente legate ai
mezzi di trasporto e all'automobile.
Questa peculiare connotazione del
sistema imprenditoriale colloca
Torino in una posizione specifica
nel contesto dell'assetto economico-produttivo
nazionale. Arrivata tardi all'appuntamento
con l'industria quale decisivo fattore
trainante a confronto con Genova
e Milano, gli altri due poli del
triangolo industriale in formazione,
Torino si attesta su un settore
nuovo per il capitalismo italiano
ed ai primi passi anche in Europa
e, mentre ne acquisisce la leadership,
introduce un dinamico fattore di
modernizzazione destinato ad incidere
in misura crescente sul sistema
economico del paese e dai molteplici
risvolti sociali, politici, culturali,
già evidenti nell'ambito
cittadino e dalle ricadute via via
più significative a livello
nazionale.
Tuttavia, se la presenza della metalmeccanica
si consolida e acquisisce nel periodo
una centralità evidente da
vari punti di vista, non esclusa
la dimensione sindacale, la struttura
del sistema imprenditoriale rimane
polisettoriale. Al 1911 l'industria
torinese utilizza 93 600 addetti:
la meccanica, insieme alla metallurgia,
ne occupa il 30 per cento (il 33
per cento nelle imprese con oltre
10 addetti) ed è al primo
posto, ma gli altri settori principali
mantengono posizioni di rilievo:
il tessile copre il 21 per cento,
l'alimentare il 19 per cento, l'edilizia
il 12 per cento, la chimica il 6
per cento.
I settori tradizionali e i settori
nuovi dell'industria si avvalgono
di accresciute risorse finanziarie
di varia provenienza, veicolate
dalle banche e da canali familiari
e derivanti dalle imprese agricole
come dalle varie attività
manifatturiere extracittadine, e
s'incrementano sulla base dell'autofinanziamento
consentito dal buon andamento delle
imprese. Anche l'avvio dell'automobilistica
- la grande novità, strutturata
agli inizi su una molteplicità
di aziende - e i primi passi della
stessa Fiat, costituita nel 1899
e destinata ad assumere il ruolo
di impresa leader nell'arco di un
decennio, si dimostrano in realtà
non casuali e non estranei alle
condizioni del sistema imprenditoriale
locale di fine Ottocento, in grado
di consentire e pronto a sostenere
l'iniziativa agli inizi di Giovanni
Agnelli con le risorse finanziarie,
tecniche e umane necessarie, come
testimonia l'articolata composizione
dell'azionariato di riferimento,
la disponibilità di tecnici,
operai e fornitori a cavallo tra
i due secoli.
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Le novità
dello sviluppo
In effetti, la sostanza del cambiamento
in atto non si evince tanto dagli indicatori
quantitativi, che anzi possono distogliere
da una percezione realistica, come nel
caso dei dati riferiti all'occupazione
industriale, passata da 80 906 unità
nel 1898 a 94 526 nel 1901 e a 93 600
nel 1911, con un incremento di 12 694
addetti, pari al 16 per cento in 13 anni.
Una crescita significativa e tuttavia
analoga a quella registrata tra il 1881
e il 1898 - seppur in un periodo più
lungo ma di solo quattro anni- pari a
12 682 addetti. Inoltre, sempre al 1911
i 93 329 addetti all'industria sul totale
dei 427 306 abitanti presenti, si attestano
sul 21,8 per cento, in diminuzione a confronto
del 26,9 per cento nel 1881, del 22,6
per cento nel 1898, e del 28,1 per cento
del 1901. A dire che, a ben vedere, i
dati, per quanto difficilmente comparabili,
non fanno percepire una fase di grave
crisi negli anni Ottanta e Novanta - quando
pure si registra un calo degli addetti
all'industria in percentuale sulla popolazione
presente, ma non in valori assoluti -
né consentono di cogliere un impetuoso
decollo industriale nel periodo tra il
1898 e il 1911, in un arco di tempo, tagliato
dalla crisi del 1907, in cui gli addetti
all'industria crescono sia in percentuale
sulla popolazione sia in valori assoluti
solo tra il 1898 e il 1901 (dal 22,6 per
cento al 28,1 per cento, da 80 906 a 94
526 unità).
Le novità vanno invece cercate
e si possono cogliere nell'articolazione
interna al sistema imprenditoriale con
la posizione prevalente, sebbene non predominante,
acquisita dalla metalmeccanica, e al suo
interno dall'automobilistica, ma soprattutto
gli elementi innovativi s'iniziano a rilevare
nell'adozione di un modello di impresa
che per strategia e struttura è
indirizzato e funzionale alla crescita
e alla tenuta nel tempo e in un settore
nuovo a confronto con un mercato mutevole
di scala internazionale. Il richiamo alle
intuizioni imprenditoriali di un industriale
determinato come Giovanni Agnelli è
d'obbligo. Nell'arco di un quindicennio,
la vera e propria rottura innovativa è
innescata dalla "devianza" della
Fiat a confronto del contesto economico
locale che cambia per gli effetti diretti
e indiretti innescati dal multiforme dinamismo
dell'impresa in termini di crescita dimensionale,
di affinamento dei processi produttivi
e di integrazione, di polisettorialità,
ovvero gli effetti derivanti dall'affermazione
di una grande impresa, centrata sul sistema
di fabbrica e fortemente inserita nell'area
torinese.
Nello stesso periodo Torino diventa una
città industriale non solo per
gli aspetti economici e urbanistici.
L'articolazione e l'organizzazione delle
forze sociali, in particolare imprenditoriali
- con la Lega industriale, costituita
nel 1906 - e operaie - con la Camera del
lavoro tra le prime ad essere fondate
in Italia, già nel 1891 - il forte
conflitto sociale, la vivace dialettica
politica, con una significativa presenza
di socialisti e liberali progressisti
in Consiglio comunale, il dinamismo culturale,
definiscono il profilo di una città
dove <<spira un vento di modernità>>,
per dirla con Luigi Einaudi, e si colgono
tratti non dissimili da analoghe esperienze
coeve a livello nazionale ed europeo.
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