Glossario
Leonardo Sciascia
Nasce a Racalmuto (Agrigento) nel 1921. Maestro elementare
fino al 1957, esordisce come narratore con Le parrocchie
di Regalpetra (1956), cronache di un immaginario paese
della Sicilia. Nell'isola trovano ambientazione molte
altre opere come gli Zii di Sicilia (1958), i romanzi
sulla mafia e sulla sua impenetrabile rete di omertà, Il
giorno della civetta (1961) e A ciascuno il suo (1966), i
racconti de Il mare colore del vino (1971). Ma la Sicilia,
con il suo concentrato di problemi, è spesso solo un
punto di partenza, una metafora della complessità: storie
svolte con intrecci accattivanti da romanzo giallo,
sostenute da un linguaggio limpidissimo, inducono a più
larghe riflessioni sulle sorti dell'intero paese e sulla
contemporaneità. Vi sovrintende l' illuminismo di un
intellettuale profondamente immerso nel razionalismo della
cultura europea e quanto mai attento alle tormentate
tensioni che percorrono, soprattutto a partire dagli anni
'70 la società italiana. Diventa più allusiva, ne Il
contesto (1971), in Todo modo (1974) o ne I pugnalatori
(1976) la rappresentazione - denuncia di un potere
politico, teso, con ogni mezzo, all' autoconservazione.
Altro filone è quello dei romanzi inchiesta o di
ricostruzione indiziaria: La scomparsa di Majorana (1975),
L'affaire Moro (1978), come già Il consiglio d'Egitto
(1963) conducono alla scoperta di un' "altra
storia", nascosta dietro a più o meno noti
accadimenti, e riproposta con inedite chiavi di lettura.
Editorialista per importanti quotidiani, Sciascia vive
anche due brevi stagioni di impegno politico, da deputato
indipendente nelle liste del PCI, nel 1976, e da
parlamentare europeo radicale. Costante, come nel romanzo
Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia (1977), resta la
sua volterriana diffidenza verso ogni ideologia. Negli
ultimi anni, nonostante l'incalzare di una grave malattia,
continua a scrivere in modo febbrile. I suoi saggi e
aforismi sono raccolti in varie opere, da Nero su nero
(1979) ad Alfabeto pirandelliano (1989).
Muore a Palermo nel 1989.
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Gesualdo
Bufalino
Nasce nel 1920 a Comiso (Ragusa), dove vivrà quasi
ininterrottamente, fino al momento della sua scomparsa.
Affascinato fin da ragazzo dalla lettura e dallo studio,
compie gli studi liceali a Ragusa e a Comiso, frequenta la
facoltà di Lettere e Filosofia di Catania e di Palermo,
ma nel 1942 è costretto a interrompere gli studi, perché
richiamato alle armi. Catturato dai tedeschi, riesce a
fuggire e a rifugiarsi in Emilia Romagna presso amici.
Ammalatosi, deve affrontare un lungo periodo di degenza
prima a Scandiano e poi nei pressi di Palermo. Le memorie
di questo periodo ritorneranno, sotto forma di racconto
apparentemente distaccato, nel romanzo Diceria
dell'untore.
La parte successiva della vita di Bufalino è
caratterizzata quasi esclusivamente dall'impegno nel
lavoro di insegnante, dalla passione per gli studi
letterari e anche dalla traduzione di alcuni classici
della letteratura francese.
Emerge, quasi per caso e già in tarda età, alla notorietà
letteraria per merito di Leonardo Sciascia, suo amico e
conterraneo. E proprio a Sciascia (e talvolta a Pirandello)
Bufalino è stato più volte accostato per lo stile, per
l'enigmatica bellezza della scrittura, per la profonda
sicilianità dei romanzi. Tra le opere più famose di
questo scrittore schivo e appartato, il già citato
Diceria dell'untore, il suo primo romanzo, pubblicato nel
1981 e vincitore del premio Campiello, e Le menzogne della
notte, con cui vince, nel 1988, il premio Strega.
Il suo ultimo romanzo è Tommaso e il fotografo cieco.
Muore il 14 giugno 1996, poche settimane dopo la sua
pubblicazione, in un incidente d'auto mentre sta
rientrando nella sua Comiso dalla vicina Vittoria.
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Luigi
Pirandello
Nasce ad Agrigento nel 1867, da un'agiata famiglia di
sentimenti patriottici e anticlericali. Segue per propria
inclinazione gli studi classici; frequenta l'università a
Palermo, Roma e Bonn, tappa fondamentale della sua
formazione per l'incontro con la cultura tedesca, gli
studi di estetica, i primi saggi sulla questione della
lingua, l'esordio poetico con Mal giocondo (1889). Tornato
a Roma nel 1891, frequenta letterati e artisti veristi e
neo veristi; scrive il primo romanzo Marta Ajala,
(pubblicato nel 1901 con il titolo L'esclusa), poesie,
recensioni e racconti. Questi ultimi saranno in tutto 246,
raccolti nei 24 volumi di Novelle per un anno (1922
-1937). Nel 1893 sposa Antonietta Portulano, dalla quale
avrà tre figli. Dal 1897 insegna per oltre vent'anni
lingua e stilistica al magistero femminile di Roma. Il
totale dissesto che investe nel 1903 il patrimonio di
famiglia lo induce a intensificare l'attività di critico
e scrittore. Al romanzo Il fu Mattia Pascal (1904), subito
tradotto in tedesco, ne seguono molti altri, fra cui I
vecchi e i giovani (1913) e Uno, nessuno e centomila
(1925). Nel 1910, stimolato dall'amico e commediografo
Nino Martoglio, esordisce come autore teatrale, attività
che presto lo assorbirà quasi totalmente. Dopo le
commedie siciliane Pensaci Giacomino (1916), Il berretto a
sonagli (1917) e La Giara (1917), assurge a fama
internazionale con Sei personaggi in cerca d'autore (1921)
ed Enrico IV (1922), ineguagliabile interprete
dell'inquietudine dell'uomo moderno, le cui pretese di
verità e coerenza appaiono però condannate
all'insoddisfazione, perchè nulla esiste oggettivamente e
l'individuo stesso non è quel che crede di essere.
Nel 1924, dopo il delitto Matteotti, Pirandello si iscrive
la partito fascista; ma i rapporti con il regime si
deteriorano presto, per l'ostilità riservata alle sue
opere. Egli stesso soggiorna sempre più frequentemente
all'estero, accompagnando le tournée del Teatro d'Arte di
Roma, da lui fondato e diretto. Insignito del titolo di
Accademico d'Italia nel 1929, trascorre gli ultimi anni in
solitudine, ai margini della cultura ufficiale. Nel 1934,
mentre in Germania è vietata la rappresentazione delle
sue opere, riceve il Nobel per la letteratura. Muore a
Roma nel 1936.
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Giovanni Verga
Nasce a Catania nel 1840. Figlio di un grande proprietario
terriero, segue l'impresa dei Mille animato da sentimenti
liberali e patriottici, rintracciabili anche nelle sue
prime opere letterarie I carbonari della montagna (1861) e
Sulle lagune (1862). Nel 1865 abbandona gli studi
universitari per trasferirsi a Firenze e cercare contatti
con la società letteraria. Stringe amicizia con il
conterraneo Luigi Capuana e scrive Una peccatrice (1866) e
Storia di una capinera (1871), romanzi ambientati nella
società borghese ed elegante del tempo, che risentono
dell'influenza romantica francese e testimoniano una
vocazione letteraria ancora in formazione.
Dal 1872 si stabilisce a Milano, dove vivrà per
trent'anni, frequentando gli ambienti culturali e mondani
più in vista della città. Nel 1874 il bozzetto Nedda,
tragica storia di una raccoglitrice di olive siciliana,
segna il suo approdo al verismo. L'attenzione dello
scrittore si rivolge non più all'artefatta irrequietezza
borghese, ma ai ben più veri drammi umani che nascono
dalla miseria e dell' arretratezza; l'accompagna la
ricerca di un linguaggio scarno ed efficace, riecheggiante
la semplice austerità della parlata popolare, che
vorrebbe essere espressione di un punto di vista
oggettivo, quasi che gli eventi narrati si producano da sè,
come per necessità naturale. Teorizzato in Italia da
Capuana, il verismo trova in Verga un interprete del tutto
originale, capace di conferire liricità e commozione
intensa alla descrizione della sua Sicilia. Un mondo di
vinti e un tempo scandito più dal destino che dalla
storia ispirano le sue opere più famose: i racconti di
Vita dei campi (1880) e di Novelle rusticane (1883) e i
due grandi romanzi, I malavoglia (1881), storia di una
famiglia di pescatori di Aci Trezza distrutta dalla fatica
e dalle disgrazie, e Mastro Don Gesualdo (1889), che ha
per protagonista un popolano arricchito, guidato
dall'unica ambizione di entrare a far parte del mondo dei
signori, e destinato a una morte di desolata solitudine.
Nel 1903, dopo una serie di viaggi in Europa, Verga
rientra a Catania, dove morirà nel 1922. Nella città
natale trascorre, in un' accidiosa solitudine, lontano
anche dall'impegno letterario, l'ultimo ventennio di vita.
Non lo destano dal silenzio nè la nomina a senatore, nè
le celebrazioni ufficiali decretate in occasione del suo
ottantesimo compleanno.
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Fedro
Dialogo di Platone, collocabile nella fase della piena
maturità della sua elaborazione filosofica. Oggetto del
dialogo è l'amore nel suo rapporto con l'anima. L'anima
è simile a un cocchio trainato da una coppia di cavalli
alati, uno ubbidiente e docile, l'altro bizzoso e
insofferente. L'auriga indirizza il carro verso il mondo
delle idee, ma la resistenza del cavallo balzano tira
l'anima verso il mondo sensibile.
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Vitaliano Brancati
Nasce a Pachino (Siracusa) nel 1907. Studia a Modica e a
Catania, dove si laurea in lettere. E' stimolato dal
padre, funzionario di prefettura, scrittore dilettante e
fervido sostenitore del fascismo, a rinverdire le
tradizioni letterarie di famiglia; collabora con giornali
di regime ed esordisce con mediocri testi teatrali,
inclini al fanatismo politico e al culto della personalità.
Trasferitosi a Roma nel 1933, diventa redattore capo della
rivista "Quadrivio"; si avvicina alle teorie
estetiche di Croce e, anche in seguito alla frequentazione
di scrittori come Alberto Moravia e Corrado Alvaro, matura
una profonda crisi politica. Nel 1934 torna in Sicilia,
per fare il professore di lettere negli istituti
magistrali; nel 1935 ripudia, bollandoli come
stupidaggini, tutti i suoi articoli giornalistici
precedenti.
Artisticamente l'autocritica corrisponde alla scoperta del
comico, sul modello di Gogol: ne è una prima espressione,
intriso di amarezza ancorché stilisticamente imperfetto,
il romanzo Gli anni perduti, pubblicato nel 1938 su
"Omnibus". L'estro dell'autore si dispiega
pienamente in Don Giovanni in Sicilia (1941), il romanzo
di successo dove il gallismo il tema dominante, e nel
piccolo capolavoro Il vecchio con gli stivali (1944), che
mostra l'eccezionale capacità di definire, con una storia
individuale, il misero quadro morale e politico di
un'epoca.
Alla caduta del regime, Brancati inverte il suo fervore
satirico, attribuendo ai vincitori la responsabilità di
non riuscire a estirpare le colpe morali del fascismo:
tematica ricorrente nelle note redatte per giornali e
riviste e raccolte postume nel Diario romano (1961).
Capolavoro del dopoguerra è Il bell'Antonio (1949): come
sempre impareggiabile nel tratteggiare con vivacissimi
tratti la società medio e piccolo borghese della sua
terra, l'autore si distingue anche per pagine di intensa
drammaticità. Dalla Sicilia la scena si sposta a Roma con
Paolo il caldo (1955), l'incompiuto romanzo di maggior
tormento esistenziale. Al pessimismo che lo permea non è
estranea la vicenda personale di Brancati, in particolare
il fallimento del matrimonio contratto nel 1946 con
l'attrice Anna Proclemer. Nel 1954 riaffiora una vecchia
malattia. Muore a Torino in quell'anno, dopo un'operazione
chirurgica.
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Elio Vittorini
Nasce a Siracusa nel 1908. Figlio di un ferroviere, che
segue da bambino nei frequenti spostamenti per lavoro,
lascia definitivamente la Sicilia nel 1924, dopo aver
frequentato, senza terminarlo, un istituto tecnico. Lavora
in Venezia Giulia presso un'impresa di costruzioni
stradali. Invia i primi articoli e racconti a Curzio
Malaparte, che li pubblica sui giornali da lui diretti.
Dal 1929 collabora con la rivista "Solaria", per
le cui edizioni escono la raccolta di racconti Piccola
Borghesia (1931) e, a puntate, il romanzo Il garofano
rosso (1933 -34).
Dal 1930 fa il correttore di bozze alla
"Nazione" di Firenze, lavoro che abbandona
quattro anni dopo, in seguito a un'intossicazione da
piombo. Si mantiene allora facendo il traduttore di
inglese e il consulente editoriale. Nel 1936, sull'onda
emotiva della guerra di Spagna, abbandona la stesura di
Erica e i suoi fratelli e matura un progressivo distacco
dal fascismo. Pubblica Nei Morlacchi. Viaggio in Sardegna
(1936) e, su la "Letteratura", Conversazione in
Sicilia (1938 - 39), romanzo del ritorno alle proprie
origini, dove, con una lingua liricizzata e un dialogo
vivo e sprezzante, esprime una forte carica ideologica per
la tematica del "mondo offeso".
Nel 1938 è a Milano. Consulente editoriale della Bompiani,
contribuisce con l'antologia Americana (1942), osteggiata
dalla censura, all'avvento in Italia della letteratura
d'oltreoceano. Iscrittosi al PCI, partecipa alla
resistenza. Nel 1945 dirige l'edizione milanese de
"L'Unità" e fonda la rivista "Il
Politecnico" (1945-47), sede di animate discussioni
sul rapporto tra politica e cultura. Scrive Uomini e no
(1945), romanzo dedicato alla resistenza a Milano e Il
Sempione strizza l'occhio al Frejus (1947), allegoria
sulla condizione umana nel dopoguerra.
Negli anni Cinquanta, allontanatosi dal Pci, intensifica
la ricerca culturale e letteraria: E' direttore di collane
presso Einaudi, dove fonda e dirige, insieme a Italo
Calvino, la rivista "Il Menabò", e presso
Mondadori. Nel 1957 pubblica gli scritti critici Diario in
pubblico. Muore a Milano nel 1966. Usciranno postumi le
riflessioni letterarie Le due tensioni (1967) e il romanzo
incompiuto Le città del mondo (1969).
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Federico De Roberto
Nato a Napoli nel 1861, siciliano per parte di madre,
studia a Catania ed è amico di Verga, che lo introduce
nei salotti milanesi. Nel suo primo volume di racconti La
sorte (1887) riecheggia, depurata da ogni afflato etico,
la concezione verghiana dei "vinti". Nei
successivi Documenti umani (1888) e Ermanno Raeli
(1889),
quest'ultimo un romanzo autobiografico, è invece più
forte l'influsso dello psicologismo dello scrittore
francese Paul Bourget, da De Roberto conosciuto in
Sicilia.
La distaccata narrazione verista e la scrittura d'analisi
e introspezione psicologica convivono nel secondo romanzo
L'illusione (1891). Pochi anni dopo, nel 1894, compaiono
I Viceré, grandioso affresco della vita aristocratica
siciliana e acuta interpretazione del fallimento
risorgimentale. Con questo romanzo, riabilitato in epoca
assai più recente, dopo che lo stesso soggetto storico è
stato ripreso da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo,
l'opera di De Roberto tocca la sua punta più alta. Poco
significativi appaiono infatti i lavori di una ancor lunga
carriera letteraria, fatta eccezione per alcune opere
teatrali, come Il rosario (1912) e alcuni racconti
ispirati dagli orrori della guerra come La Cocotte (1920)
e La paura, pubblicato quest'ultimo nello stesso anno
della morte, avvenuta a Catania nel 1927.
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Luigi Capuana
Nasce a Mineo (Catania) nel 1839. Di famiglia borghese,
trascorre un'agiata giovinezza nel paese natale; tra i
suoi primi scritti Garibaldi (1861), opera in versi di
ispirazione romantica e patriottica. Trasferitosi nel 1864
a Firenze, è critico teatrale per la "Nazione"
e frequenta i circoli artistici e letterari. E' amico di
Verga, sui cui orientamenti influirà non poco; non meno
significativa l' amicizia con un altro conterraneo,
Leonardo Vigo, studioso del folklore, che lo sollecita ad
approfondire la conoscenza di quella cultura e tradizione
popolare da cui trarrà copioso materiale per fiabe e
novelle.
Tornato in Sicilia nel 1869, per motivi di salute, è
ispettore scolastico nel 1871, e sindaco del suo paese nel
1872. Nel 1877 si trasferisce a Milano e poi a Roma, dove
dirige, dal 1882 al 1884, il "Fanfulla della
Domenica". E' questa la sua stagione più feconda,
come critico, scrittore, intellettuale attratto da
discipline come la psicologia, la fisiologia, la
patologia. Principale teorico del verismo, con costanti
richiami al naturalismo francese, si dichiara fautore di
un' osservazione scrupolosa della realtà: lo scrittore,
alla stregua dello scienziato, non deve disdegnare le
brutture umane, nelle quali più nettamente sono
rintracciabili i fattori ambientali ed ereditari; e il
linguaggio, per essere veritiero, deve essere il più
possibile aderente al mondo e ai personaggi rappresentati.
Giacinta (1879) segna il debutto verista di Capuana; Il
Marchese di Roccaverdina (1901), attenta rappresentazione
psicologica di un nobiluomo siciliano e della sua
travolgente passione per una contadina, fino al delitto e
alla follia, è il suo romanzo più noto e riuscito. Molti
gli altri lavori di narrativa: romanzi, come Profumo
(1890); raccolte di novelle a sfondo regionale come Le
paesane (1894) e le Nuove paesane (1898); lavori critici e
teorici, come Studi sulla letteratura contemporanea (1880
- 82). Non meno importanti sono infine le raccolte di
fiabe e novelle destinate ai bambini, Le ultime fiabe e
C'era una volta (1882), e i romanzi per ragazzi, Cardello,
Gambalesta e soprattutto Scurpiddu 1898.
Nuovamente sindaco a Mineo nel 1885, poi chiamato alla
cattedra di letteratura italiana alla Facoltà di
Magistero di Roma, Capuana conclude la carriera insegnando
estetica e stilistica all'Università di Catania. Muore
nella stessa città nel 1915.
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Salvatore Quasimodo
Nasce a Siracusa nel 1901. Figlio di un ferroviere,
consegue il diploma di geometra. A Roma, nel 1921, mentre
frequenta il Politecnico ed esercita per vivere diversi
mestieri, intraprende privatamente gli studi di greco e di
latino che tanta influenza eserciteranno sul suo stile
futuro. Divenuto funzionario del genio civile, si sposta
in varie regioni d'Italia, stabilendosi infine a Milano,
dove insegna dal 1941 letteratura italiana al
Conservatorio Giuseppe Verdi.
La sua storia poetica si divide in due periodi. Il primo,
da Acque e terre (1930) a Ed è subito sera (1942), segna
l'adesione all'ermetismo e a quella che da lui si è
chiamata "poetica della parola". Con la
drammatica esperienza della guerra, una "sconfitta
per l'umanità", matura invece in Quasimodo una nuova
concezione dei compiti del poeta, dando origine alla
poetica del reale, espressa nella raccolta Con il piede
straniero sopra il cuore (1946), in consonanza con la
sofferenza e il dolore assunti come fatto collettivo.
Sulla stessa linea di partecipazione umana e sociale sono
le raccolte successive da La vita non è sogno (1949) a La
terra impareggiabile (1958), a Dare e avere (1966).
Anche con l'attività di traduttore il poeta siciliano ci
consegna pagine di ineguagliata bellezza dai Lirici greci
(1940), all'Odissea (1945), dai poeti latini, ai tragici
greci, al teatro di Shakespeare e Molière.
Nel 1959 è insignito del premio Nobel per la letterautura.
Muore a Napoli nel 1968.
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Iacopo da Lentini
Poeta siciliano del XIII secolo (si hanno notizie di lui
tra il 1233 e il 1240), esercitò la professione di notaio
alla corte di Federico II. Nel Purgatorio Dante lo designa
come "notaro" per antonomasia e lo riconosce
come il fondatore della scuola poetica siciliana; nel De
Vulgari Eloquentia lo cita come esempio dei poeti
meridionali che hanno composto rime in volgare. Autore di
un canzoniere che comprende una quarantina di liriche,
Iacopo viene tradizionalmente riconosciuto come
l'inventore del sonetto, perché è sua la più antica
composizione in questa forma metrica giunta fino a noi.
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Vincenzo Consolo
Nato nel 1933 a Sant' Agata di Militello (Messina),
laureato in giurisprudenza, esordisce nel 1963 nella
narrativa con La ferita dell'aprile, romanzo
autobiografico in cui ricorrono l'infanzia, il paesaggio
messinese, gli anni del collegio. Dal 1968 vive e lavora a
Milano. E' per qualche tempo, prima di dedicarsi
interamente all'attività di scrittore, consulente della
casa editrice Einaudi. Collabora a programmi e
pubblicazioni della RAI. Ottiene il successo con Il
sorriso dell'ignoto marinaio (1976), che si ispira
storicamente, basandosi su un apparato di documenti
d'archivio, a congiure antiborboniche avvenute in Sicilia
nel periodo immediatamente antecedente l'impresa dei
Mille. Il romanzo si inserisce nella tradizione della
narrativa regionalistica trasfigurata dai simboli e
dall'allegoria. Molto originale, vero e proprio
laboratorio linguistico, appare la ricerca espressiva: una
prosa frammista a poesia, ora barocca ora sperimentale,
impasto di lingua letteraria e dialetto su vari registri
stilistici. Dopo la favola teatrale Lunaria (1985),
pubblica nel 1897 Retablo, ancora un romanzo di
ambientazione storica, che ha per protagonista un
gentiluomo milanese, in fuga dal mal d'amore e dalla cieca
e dolente attualità della storia, e alla scoperta della
Sicilia settecentesca. Ambientati nell'isola, ma con un
impegno civile che riporta all'attualità, sono i racconti
e le prose memorialistiche di Le pietre di Pantalica
(1988): alle illusioni del dopoguerra fa seguito lo
sdegno, l'amarezza, il senso di sconfitta per il
riconsolidarsi di secolari poteri, per un'immobilità
dominata dalla mafia, a cui si accompagna un generale
sfacelo ecologico e culturale.
Nel 1992 Consolo vince il premio Strega con Nottetempo
casa per casa (1992), romanzo di uno scrittore alla
ricerca delle proprie radici nella Sicilia degli anni
Venti, fra Cefalù e Palermo.
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Andrea Camilleri
Nato a Porto Empedocle (Agrigento) nel 1925, è
sceneggiatore e regista teatrale e televisivo. Esordisce
nella letteratura nel 1978 con Il corso delle cose, ma è
noto al grande pubblico solo una ventina di anni dopo,
quando la casa editrice Sellerio pubblica alcune sue
opere. Da allora diventa un caso editoriale per lo
straordinario successo soprattutto di pubblico.
Molti suoi romanzi e racconti sono ambientati a Vigata,
un' immaginaria città della Sicilia. Alcuni, come Il cane
di terracotta, Il ladro di merendine, La voce del
violino,
sono ambientati nell'attualità e hanno per protagonista
il commisario di polizia Montalbano. Altri, come Il
birraio di Preston, La concessione del telefono,
Un filo
di fumo, La strage dimenticata, sono di ambientazione
storica e si svolgono nella Sicilia della seconda metà
dell' Ottocento.
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Libertà
E' il titolo di una celebre novella di Giovanni Verga in
cui lo scrittore descrive i fatti accaduti a Bronte, un
paese in provincia di Catania, nell'agosto 1860, quando i
contadini, sull'onda delle speranze suscitate dalla
spedizione dei Mille, insorsero contro i proprietari e i
potenti del luogo, reclamando la spartizione delle terre.
"Libertà" per i contadini affamati, non
significava monarchia costituzionale o nuovo Stato
unitario, ma si identificava innanzitutto con il pane, cioè
con il possesso della terra. Invece all'esplosione
libertaria, seguirono l'arrivo delle camicie rosse, le
fucilazioni indiscriminate sulla piazza del paese, un
lungo processo con le condanne all'ergastolo.
Verga racconta la carneficina compiuta dalla folla con
un'ombra di distacco, quasi accennando a una visione
satirica delle pretese libertarie. Nella descrizione del
processo emerge però soprattutto l'opaca rassegnazione
dei disperatati rivoltosi, la loro incapacità di
redimersi, la condanna a un destino di oppressione.
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Famiglia Toscano
E' la famiglia di Aci Trezza le cui vicende sono narrate
nel romanzo di Verga I Malavoglia. "Malavoglia"
è appunto il soprannome scherzosamente ingiurioso, come
in uso nei paesi della Sicilia, con cui la famiglia
Toscano è conosciuta ad Aci Trezza.
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Padron 'Ntoni
E' il capo della famiglia Toscano, il nonno, protagonista
del romanzo di Verga, I Malavoglia.
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Familismo amorale
Il termine "familismo amorale" deve la sua
paternità all'antropologo americano Edward Banfield, che
lo usò per descrivere il comportamento dei contadini di
Chiaromonte, un paesino della Basilicata, oggetto alla
fine degli anni Cinquanta di una sua analisi sul campo,
pubblicata nel 1958 con il titolo The moral Basic of a
Backward Society (nella traduzione italiana: Le basi
morali di una società arretrata, Bologna, 1976). Secondo
Banfield, l'estrema arretratezza di Chiaromonte era dovuta
"all'incapacità degli abitanti di agire insieme per
il bene comune, o, addirittura, per qualsivoglia fine che
trascendesse l'interesse immediato del proprio nucleo
famigliare".
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Uzeda Francalanza
Gli Uzeda sono la nobile famiglia siciliana di cui De
Roberto, ne I Viceré (1894), narra la decadenza, in
concomitanza con la fine del regno dei Borboni e la
nascita dell' Italia unita, a contatto cioè con la nuova
società liberale.
Viceré di Sicilia ai tempi di Carlo V, borbonici per la
pelle, gli Uzeda riescono a salvare la famiglia perché
uno di loro parteggia in tempo opportuno per i liberali e
pone la sua candidatura a deputato sabaudo. In tal modo
tutto sarà cambiato perché tutto rimanga come prima e il
potere resti ancora nelle mani di quanti lo hanno sempre
esercitato. Ciò non toglie che la famiglia decada, ma ciò
a causa delle tare ereditarie, della corruzione atavica
dei personaggi, non per un effettivo progresso della
società, per un moto positivo operato dalla storia.
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Gaspare d'Oragua
Il vecchio Gaspare d'Oragua è uno dei protagonisti del
romanzo I Vicere di De Roberto. Duro e avido, si oppone al
dissoluto conte Raimondo, non esitando, per i suoi scopi,
a fingere simpatie liberali. Sua è la battuta: "Ora
che l'Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari
nostri".
"La storpiatura della massima di D'Azeglio - scrive
Antonio Di Grado (La vita, le carte i turbamenti di
Federico De Roberto, gentiluomo, Catania, 1998) -
perpetrata dal cinico duca d' Oragua, è di tal portata da
travalicare il romanzo, da inaugurare un verro e proprio
filone di letteratura e di pensiero isolani".
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Fasci Siciliani
Con il termine "fasci" si indicarono le
organizzazioni proletarie sorte negli anni 1892-1893 in
alcune località della Sicilia, dove la crisi economica
aveva determinato un fortissima tensione sociale. Queste
organizzazioni si diffusero rapidamente fino a determinare
un grande movimento di massa. Ne facevano parte contadini,
braccianti, mezzadri e, a seconda delle località,
minatori, artigiani, piccoli commercianti e piccoli
proprietari: un vasto movimento a cui parteciparono anche
molte donne e bambini.
Guidati da uomini di orientamento socialista come Nicola
Barbato, Rosario Garibaldi Bosco e Giuseppe De Felice, i
Fasci furono soprattutto un movimento spontaneo di
protesta, che affiancava la battaglia contro l'eccessivo
fiscalismo e la rivolta contro la tirannia dei
"galantuomini" nelle amministrazioni locali,
alla richiesta di revisione dei patti agrari e alla
rivendicazione di terre da coltivare.
Affermatisi anche grazie all'atteggiamento liberale di
Giolitti, che si limitò a garantire l'ordine senza
impedire l'organizzazione delle opposizioni, i Fasci
Siciliani furono duramente repressi (un centinaio furono
le vittime) da Crispi. Questi, tornato al governo nel
dicembre 1893, presentò il movimento come una vasta
cospirazione tesa a sovvertire lo Stato e nel 1894 fece
eseguire circa 2000 arresti e condannare a dure pene
detentive i dirigenti.
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Giuseppe Tomasi
di Lampedusa
Nato a Palermo da una famiglia aristocratica, interrompe
gli studi appena ventenne per partecipare come volontario
alla prima guerra mondiale. Fatto prigioniero, riesce a
evadere e a rientrare in patria dopo lunghe peregrinazioni
in mezza Europa. Nel 1925, per avversione al fascismo,
abbandona la carriera di ufficiale e si ritira a vivere in
Sicilia, alternando il volontario isolamento a lunghi
soggiorni all'estero (in Francia, Inghilterra, Lettonia).
Grande lettore, ma scrittore assai parco, ci ha lasciato
poche opere, tutte pubblicate dopo la sua morte, avvenuta
a Roma nel 1957. Si tratta di alcuni racconti brevi, di
alcuni saggi sulla letteratura francese dell'Ottocento e
del suo unico, famosissimo romanzo Il Gattopardo, grande
affresco storico della Sicilia al tempo della fine del
regno dei Borboni e della vittoria dei Mille.
Terminato da Tomasi di Lampedusa poco prima della morte,
letto casualmente in copia dattiloscritta da Giorgio
Bassani e da lui fatto pubblicare nel 1958, Il Gattopardo
riscosse uno straordinario successo di critica e di
pubblico, rivelando uno scrittore in possesso, come,
scrisse all'epoca lo stesso Bassani, di un'ampia
"visione storica, unita a un'acutissima percezione
delle realtà sociale e politica dell'Italia
contemporanea; delizioso senso dell'umorismo; autentica
forza lirica; perfetta, a tratti incantevole,
realizzazione espressiva".
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Angelo Musco
(Catania, 1871 - Milano, 1937), figlio di un
bottegaio, esordì come attore a 12 anni in una compagnia
napoletana. Nel 1899 entrò nella compagnia di Giovanni
Grasso senior, riuscendo presto a guadagnarsi i favori del
pubblico. Nacque, così, una rivalità professionale tra i
due attori che, tuttavia, non intaccò i rapporti
personali. Staccatosi dal suo maestro, fondò nel 1914 una
propria compagnia di cui fecero parte le due sorelle
Anselmi, una delle quali, Rosina, divenne la sua
fedelissima compagna d'arte. Fra il 1915 e il 1917 cominciò
la sua fortuna e divenne un attore popolarissimo, molto
apprezzato dalla critica al punto che i maggiori scrittori
siciliani, come Pirandello, Capuana e Martoglio scrissero
per lui. Molto attivo anche in campo cinematografico,
Musco prese parte a molti film ritagliati sulle sue qualità
istrioniche, alcuni dei quali di successo: Cinque a zero
di Mario Bonnard, Paraninfo, L'eredità dello zio
buon'anima e Fiat voluntas dei di Amleto Palermi,
L'aria
del continente, Lo smemorato e Pensaci,
Giacomino!, Gatta
ci cova di Gennaro Righelli, Re di denari di Enrico
Guazzoni, Il feroce Saladino di Mario Bonnard.
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Giovanni Grasso senior
Nato a Catania nel 1873 e morto nel 1930, fu il più
grande attore tragico del teatro siciliano; figlio di un
famoso puparo, fu scoperto da Nino Martoglio ed esordì
nella Zolfara di Giusti-Sinopoli. Grandi successi raccolse
nel Berretto a sonagli di Pirandello, nella Morte civile
di Giacometti, in Pietra su pietra di Sudermann, nella
Figlia di Jorio di D'Annunzio, tradotta in siciliano da
Giuseppe Antonio Borgese. Ma riuscì grande soprattutto
nella Cavalleria rusticana, in cui ebbe modo di rivelare
le sue più autentiche qualità: l'istinto e il
temperamento passionale.
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Proteo
Divinità marina dell'antica Grecia, rappresentato come
pastore di un gregge di foche o di altri animali del mare.
Aveva il dono della divinazione e della metamorfosi, come
altri mitici esseri marini. Rappresentava la realtà
instabile del mare contrapposta alla stabile realtà della
terraferma.
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Sebastiano Aglianò
Allievo di Luigi Russo alla Normale di Pisa, Aglianò
(Siracusa 1917-Siena 1982) è stato professore e preside
nei Licei e poi docente di Letteratura italiana al
Magistero di Siena. Come critico si è occupato
soprattutto di Foscolo e di Dante. A lui si deve l'acuto
ritratto della sua terra d'origine, intitolato Questa
Sicilia (1945).
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Sant'Agata
Sant'Agata è la protettrice della città di Catania: la
sua festa si celebra il 5 febbraio, con grandissima
partecipazione popolare anche nei giorni che precedono
l'evento.
Fu martire verso la metà del III secolo, subendo il
taglio delle mammelle per difendere la propria purezza.
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Santa Rosalia
Santa Rosalia è la santa patrona di Palermo. I
palermitani la festeggiano due volte l'anno, il 15 luglio
con il "fistino", una grande festa popolare
culminante nella processione notturna con gli splendidi
fuochi d'artificio alla Marina, e il 4 settembre con la
festa religiosa. Nella notte che precede il giorno
consacrato alla santa, i palermitani devoti e tutti coloro
che hanno da chiedere alla santa qualcosa di importante
salgono lungo il sentiero detto "la Scala Santa"
che unisce la città con il Monte Pellegrino.
I più devoti salgono la ripida salita sulle ginocchia con
un cero acceso in mano. Su in cima al monte Pellegrino, c'è
la grotta dove si racconta che la santa vivesse e dove
giovanissima sembra sia morta.
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Nino Martoglio
Nino Martoglio (Belpasso, Catania, 1870 - Catania, 1921),
dopo aver conseguito il brevetto di capitano di lungo
corso e aver navigato per quattro anni, fondò a Catania,
nel 1889, il settimanale politico-letterario D'Artagnan.
Nel 1904, dopo una breve parentesi politica come
consigliere comunale del suo paese, si trasferì a Roma
per dare spazio alla sua passione teatrale. Dotato di
grande talento, diresse compagnie siciliane che rivelarono
attori come Giovanni Grasso e Angelo Musco. A lui si deve
la vera nascita del teatro dialettale siciliano, fino ad
allora povero di attori e autori. Ricorse, infatti, a nomi
quali Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, Rosso di San
Secondo, affinché fornissero un repertorio adeguato di
trame. Scrisse una trentina di commedie in dialetto
catanese, caratterizzate da una comicità estrosa: San
Giuvanni decullatu (1908), portato sullo schermo anche da
Totò, L'aria del continente (1915), Il marchese di
Ruvolito (1920). Compose anche versi, sempre in dialetto,
di notevole forza satirica. Sua, inoltre, la regia di
Sperduti nel buio, del 1914, il più celebrato capolavoro
italiano del muto, da un dramma di Roberto Bracco. Morì
tragicamente a Catania nel 1921, precipitando nella tromba
dell'ascensore in costruzione nell'ospedale dov'era
ricoverato il figlio tredicenne Luigi Marco.
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Cielo d'Alcamo
Ignoto poeta siciliano del XIII secolo. Il filologo del
Cinquecento Angelo Colucci gli attribuisce il famoso Rosa
fresca e aulentissima, uno dei più antichi componimenti
poetici in volgare.
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La baronessa di Carini
Un antico poemetto siciliano d'autore ignoto racconta
la storia di Laura Lanza La Grua, castellana di Carini,
uccisa, insieme al suo amante Ludovico Vernagallo, dal
padre Cesare Lanza di Trabia nel 1563, per salvare l'onore
della famiglia. Esso rappresenta uno dei più antichi e
noti melodrammi popolari siciliani. La fantasia di coloro
che in seguito si sono ispirati all'evento ha fatto
nascere numerose varianti della storia, non ultima una
versione televisiva di qualche anno fa. Il primo vero
studioso del fatto fu Salvatore Marino il quale, nella
prima edizione del 1871, raccolse la recita di un
contadino cantastorie carinese. Ma nel 1872 lo stesso
Marino presentò una seconda edizione ritoccando fatti
poeticamente importanti, della prima. Nel 1913, infine,
presentò il poemetto in un' edizione da lui stesso
definita storica.
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Mena Malavoglia
e Alfio Mosca
Ne I Malavoglia anche l'amore è condizionato dalle
necessità economiche. Tra la nipote maggiore di padron
'Ntoni, Mena, soprannominata Sant'Agata, e il carrettiere
Alfio Mosca, il sentimento si manifesta in segreto, con
espressioni allusive e qualche saluto malinconico. Il
carrettiere vive solo con il suo asino e mangia la sera la
sua zuppa di fave sul ballatoio, a lume spento, per
sentirsi più vicino alla confinante casa del nespolo,
dove vivono i Malavoglia, e ricevere la buonanotte da
Mena. Ma quel un sogno d'amore tanto discreto e condiviso
è destinato a non avere futuro: per Mena lo zio prepara
un matrimonio più vantaggioso; Alfio decide di lasciare
Aci Trezza, per la piana di Catania, dove ci sarà più
lavoro per il suo asino. Il saluto d'addio tra gli
innamorati è uno degli esempi più alti della discrezione
verghiana: un pudore istintivo trattiene i due giovani dal
dare libero sfogo ai sentimenti, né affiorano parole o
pensieri che accennino alla capacità di opporsi a ciò
che deve accadere
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Vita dei campi
La Lupa e L'amante di Gramigna sono due novelle di
Giovanni Verga, che prendono il titolo dalle stesse
protagoniste femminili dei racconti. Sono entrambe
contenute nella raccolta Vita dei campi pubblicata nel
1880.
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Omertà
La più nota delle possibili etimologie della parola omertà
venne fornita negli anni Ottanta dell'Ottocento dal grande
etnologo palermitano Giuseppe Pitré, e a sua volta si
modellava su quella indicata già alla metà del decennio
precedente dal magistrato Giuseppe Di Menza. Il termine
deriverebbe dalla radice omu (uomo), da cui l'astratto
omineita-mortà rifletterebbe una concezione esasperata,
tutta popolaresca e mediterranea, della virilità, per la
quale ognuno è costretto a vendicare le offese da sé,
senza mai far ricorso, pena il disonore, alla forza
pubblica. In questo senso per Pitré omertà era il
concetto chiave che stava linearmente a chiarire quello di
mafia, di per sé ambiguo o oscuro, "quasi
impossibile da definire" se non magari in negativo:
la mafia, egli scrisse, "non è setta né
associazione, non ha regolamenti né statuti, (...) il
mafioso non è ladro, né malandrino (...); la mafia è la
coscienza del proprio essere, l'esagerato concetto della
propria forza individuale, (...) donde le insofferenze
della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza
altrui".
Siamo alle origini di una costruzione intellettuale
tendente a tutelare l'immagine della Sicilia offesa dalle
(presunte) calunnie e incomprensioni dei continentali. Di
quest'immagine negli anni a venire si sarebbero
appropriati in particolare gli avvocati dei mafiosi,
desiderosi di dimostrare che i loro assistiti si
scontravano per loro privati odi "di famiglia",
che essi erano affetti da "ipertrofia dell'io"
(sic!), che l'omertà rappresentava un semplice riflesso
di tale ipertrofia, tipica dell'homo sicilianus.
Viceversa già al tempo di Pitré era diffusa l'idea della
mafia come organizzazione settaria, dall'etnologo - e da
tanti altri - rifiutata sdegnosamente come invenzione dei
questurini continentali. Significativamente negava, Pitré,
la derivazione della parola omertà da umiltà attraverso
la conversione della i in r, tipica del dialetto
siciliano, etimologia indicata da molti, ad esempio da
Giuseppe Alongi, criminologo e funzionario di polizia, non
continentale ma siciliano (1886). Umiltà era infatti
termine usato nel primo Ottocento nelle organizzazioni
delinquenziali (camorristiche) e in quelle massoniche e
carbonare. Nelle organizzazioni massoniche ottocentesche,
anche fuori della Sicilia, il delatore si diceva infame.
In una delle prime testimonianze sul tema (1864) , dovuta
dal barone Nicolo' Turrisi Colonna, senatore, eminente
leader politico del tempo, ed egli stesso sospetto quale
grande protettore di mafiosi, non troviamo ancora la
parola mafia ma troviamo le parole setta, infamia, umiltà:
"umiltà importa rispetto e devozione alle sette ed
obbligo da qualunque atto che può' nuocere direttamente o
indirettamente agli affiliati. (...) Chi è vissuto
qualche tempo nelle campagne di Palermo, conosce come
spesso si formino delle grandi riunioni della setta per
discutere della condotta d'un tale affiliato. (...)
L'assemblea, intesi tutti i componenti, decide".
Il termine umiltà-omertà ci porta dunque dentro
l'organizzazione mafiosa.
(Sintesi dalla voce Omertà di Salvatore Lupo in La
Mafia.
150 anni di storia e storie, CD Rom, ideato e realizzato
da Cliomedia Officina, per la Città di Palermo, Mediateca
Regionale Toscana, Regione Toscana, 1999).
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La Mafia (lezione
di Salvatore Lupo)
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Commissione
antimafia
Il 20 dicembre 1962 venne costituita con la legge n.1720
la Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della
mafia in Sicilia che, pur tra alterne vicende, è attiva
ancora oggi.
La Commissione antimafia raccolse una mole imponente di
informazioni ed indagini sulla mafia, ma la sua produzione
"politica", cioè la capacità di elaborare e
tradurre tali conoscenze in norme di legge efficaci, fu
scarsa, a causa delle contraddizioni e resistenze
soprattutto nei partiti politici di governo, intenti a
coprire finché possibile le complicità e i legami con la
mafia dei loro rappresentanti siciliani.
La Commissione, insediatasi il 14 febbraio 1963, iniziò i
suoi lavori solo nel luglio, in occasione della strage di
Ciaculli, quando l'esplosione di un'autovettura imbottita
di tritolo provocò la morte di quattro carabinieri, due
militari e un maresciallo di polizia.
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Cosa Nostra
Nel II dopoguerra, mentre si andavano cementando i
rapporti di tipo affaristico e clientelare fra mafiosi,
politici, imprenditori, funzionari pubblici, la mafia
procedette a una profonda riorganizzazione interna.
Elemento decisivo, in questo periodo più che in altri,
furono i rapporti con alcuni mafiosi statunitensi. Sia
attraverso contatti, sia con l'attività in Italia di
personaggi come Frank Coppola, legato strettamente al
mondo della politica, Lucky Luciano, Joe Adonis, Frank
Garofalo, la mafia rinnovò le proprie strutture, si dotò
di un'organizzazione più articolata sul territorio, entrò
in relazioni d'affari con le più organizzate famiglie
statunitensi per gestire il traffico degli stupefacenti.
Essenziale, in questa fase, fu la figura di Luciano,
proteso ad evitare conflitti dirompenti tramite una
programmazione manageriale delle attività mafiose. Ci si
avviò verso "Cosa Nostra": i mafiosi chiamarono
in questo modo, sull'esempio degli americani, una
struttura di governo del territorio e di coordinamento
delle attività mafiose.
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I mafiusi di la
Vicaria
Il termine mafia, più precisamente quello di mafioso,
venne impiegato per la prima volta nel titolo di un testo
teatrale, I mafiusi di la Vicaria (1863) di Giuseppe
Rizzotto e Gaspare Mosca.
Nella commedia di Rizzotto e Mosca occupa un ruolo di
primo piano la presenza di un personaggio forte: un
illustre prigioniero politico, l'Incognito, sotto le cui
spoglie si nasconde forse Francesco Crispi. Risulterà
essere uno dei capi dell'organizzazione camorrista. Sarà
proprio lui, nell'ultimo atto, a reintegrare il capo
cammorista, lo "zu Iachinu", in una società
ormai liberata dai Borboni, che, in virtù del nuovo e
vero ordine di giustizia, non ha più bisogno
dell'intermediazione di quell' "associazione
malandrinesca" che invece gli amici di Iachinu, con
sua grande disapprovazione, vorrebbero ancora tenere in
vita sotto i sabaudi.
La commedia può fornire alcuni primi interessanti dati
per la definizione di un paradigma letterario della mafia.
In primo luogo, emerge il legame indissolubile tra
rivoluzione garibaldina e mafia, tra mafia e una certa
politica: a inverare, da un punto di vista sicilianistico,
le numerose immagini di picciotti pronti alla lotta
antiborbonica che escono, per esempio, dalle opere della
"camicia rossa" Giuseppe Cesare Abba. In secondo
luogo, si palesa sin dalle origini un'idea della mafia
come associazione senz'altro criminosa, ma comunque
anti-borbonica, e addomesticabile dalla classe dirigente
siciliana (quella liberale e repubblicana), forse collusa
con essa.
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Franchetti e Sonnino,
La Sicilia nel 1976
All'indomani dell'unità d'Italia, Leopoldo Franchetti e
Sidney Sonnino, esponenti di quel riformismo illuminato la
cui matrice era il nuovo pensiero conservatore nato dal
fallimento della Destra storica, si proposero di
analizzare sul campo il problema dell'arretratezza
meridionale, a partire dallo studio delle condizioni
economiche e sociali della Sicilia.
La pubblicazione della loro celeberrima inchiesta condotta
in Sicilia nel 1876, restituì, dell'isola, un'immagine
impietosa, quella di una terra barbara, e assumeva come
dato ovvio la presenza di una "classe dei
facinorosi", "una classe con industria ed
interessi suoi propri, una forza sociale di per sé
stante", e di una mentalità latamente mafiosa,
diffusa capillarmente tra la popolazione, mentre imputava
il fenomeno criminale alla persistenza di strutture
feudali, insomma al mancato appuntamento della regione con
la modernizzazione nazionale.
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Filippo Gualtierio
Tra il 1865 ed il 1866, il prefetto di Palermo Filippo
Gualtierio e il generale Giacomo Medici organizzarono
grandi operazioni militari per la cattura e l'arresto di
renitenti alla leva, disertori e malviventi colpiti da
mandato di cattura. Riuscirono ad arrestare 2.500 persone,
ma lasciarono nelle popolazioni strascichi di polemiche e
risentimenti per la brutalità dei metodi utilizzati.
Perché il governo non ottenne con quegli interventi il
consenso e l'appoggio dei cittadini e non vide cresciuta
la sua autorità morale? Il prefetto Gualtierio ne
individuava la causa nella diffusione della
"Maffia", definita come associazione di violenti
che, un tempo protetta dai signori feudali, era poi
diventata protettrice dei maggiori proprietari. Essa
costituiva ormai un'associazione con statuti veri e
propri, in grado di fornire servizi illegali anche ai
partiti politici, dai quali, in cambio, riceveva
importanti favori. Il rapporto, pur evidenziando una
visione eccessivamente complottista della mafia
(identificata con l'opposizione politica), individuava
alcuni reali elementi del suo radicamento, in particolare
la rete di protezioni che le garantivano impunità.
Nello stesso anno un procuratore del re denunciava il
rapporto di complicità fra malfattori e protettori: se
spesso la protezione era imposta, come nel caso dei
derubati che si rivolgevano ai mafiosi per ottenere
indietro gli oggetti rubati in cambio di un riscatto, tale
non era il caso nel quale i protettori erano ricchi
proprietari ed appartenenti alle classi dirigenti, che
ottenevano notevoli vantaggi dalla loro azione di
fiancheggiamento della delinquenza.
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I Beati Paoli
Luigi Natoli fu l'autore, con lo pseudonimo di Wiliam
Galt, di un romanzo di appendice, I Beati Paoli, apparso a
puntate sul "Giornale di Sicilia" dal 6 maggio
1909 al 2 gennaio 1910. In esso la setta degli
incappucciati neri, contrariamente a precedenti
interpretazioni, veniva presentata come un'associazione
protomafiosa, alimentando la leggenda di un'organizzazione
segreta nata per vendicare i deboli e portare giustizia
laddove giustizia non c'è. Un mito questo di cui la mafia
si sarebbe appropriata, per giustificare il suo operato
criminoso o magari richiamandosi, quando perdente,
all'altra leggenda di una mafia antica e cavalleresca,
ancorata a un inderogabile codice d'onore, che si batte
contro un'organizzazione nuova, spietata, priva di
riferimenti morali.
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Giovanni Alfredo
Cesareo
Noto cattedratico dell'Università di Palermo, nonché
poeta in proprio e storico della lirica italiana, Giovanni
Alfredo Cesareo, fu autore nel 1921 di una commedia, La
Mafia, in cui si trovano, svolti con abilità
drammaturgica e capacità di introspezione psicologica,
tutti i luoghi comuni su una mafia dispensatrice di
giustizia, laddove giustizia non c'è, soprattutto
riparatrice di torti sessuali. Di fronte a un prefetto
continentale inetto e buono a nulla, lo scontro ideologico
centrale della commedia è quello tra il barone
Montedomini, nemico giurato della democrazia e della
mafia, con argomenti che sembrano uscire dall'inchiesta di
Franchetti e Sonnino, e l'avvocato Rasconà, un mafioso
che parla come Capuana; lo scontro ha un lieto fine, che
sancisce la vittoria della violenza giusta dell'avvocato
mafioso su quella ingiusta dell'aristocratico che si fa
sostenitore della cosiddetta legalità dello Stato.
Bisogna aggiungere che, estratta la sostanza storica della
commedia dalla sua forma apologetica, non è difficile
ravvisare in Rasconà, con felice intuizione, un
rappresentante di quella "mafia in guanti
gialli", affaristica e borghese, cresciuta e
prosperata con l'allargamento del suffragio elettorale.
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Giuseppe Pitré
Giuseppe Pitré fu il fondatore degli studi folclorici in
Italia. Palermitano, si laureò in medicina ma dedicò
tutta la vita alla raccolta e allo studio delle tradizioni
popolari siciliane. Presidente della Società siciliana di
storia patria, e in seguito della Regia accademia di
scienze e lettere di Palermo, fondò il Museo di
Etnografia siciliana che prese il suo nome. Dal 1910 fu
professore all'Università di Palermo, dove ebbe la
cattedra di "demopsicologia" (cioè
"psicologia del popolo") che era la
denominazione da lui preferita per gli studi folclorici.
La sua opera maggiore è la Biblioteca delle tradizioni
popolari: una raccolta monumentale di 25 volumi di canti,
giochi, proverbi, medicina popolare (uscita fra il 1871 e
il 1913) che rimane impareggiabile per ampiezza e
precisione.
Alla fine dell'Ottocento, quando si discusse sul
significato originario di alcune parole chiave della
mafia, al fine di nobilitarne i contenuti, Pitré cercò
di dotare di dignità scientifica la derivazione della
parola omertà da "omineità", già sostenuta
dal magistrato Di Menza, quindi legata all'essere
"uomo", e di negarne il legame con la parola
umiltà, del linguaggio dei galeotti. Pitré sostenne
inoltre che il significato originario della parola mafia
fosse "graziosità, eccellenza nel suo genere"
ed in seguito "coscienza d'esser uomo, sicurtà
d'animo... non mai arroganza". Egli descrisse il
mafioso come persona che voleva essere rispettata e, se
offesa, non ricorreva alla giustizia, perché avrebbe dato
prova della propria debolezza. Secondo lo studioso,
l'immagine della mafia come delinquenza sarebbe stata
diffusa dallo spettacolo teatrale di Giuseppe Rizzotto I
mafiusi di la Vicaria, rappresentato più volte tra il
1863 e il 1884.
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Stefano D'Arrigo
(Alì, Messina, 1919 - Roma, 1992), dopo la laurea in
Lettere a Messina, nel 1942, si trasferisce a Roma dove
lavora a "Il Tempo" e al "Giornale
d'Italia".
Il suo esordio risale al 1957 con un volume di versi
intitolato Codice siciliano, ma negli stessi anni
intraprende un ardito progetto narrativo che lo
accompagnerà per un ventennio circa, fino al 1975, anno
della pubblicazione del romanzo-fiume Horcynus Orca. Esso
racchiude in un'azione di pochi giorni e in uno spazio
limitato, tra l'estremità della Calabria e della Sicilia,
una materia di immenso potenziale mitico e simbolico, con
numerosi spunti realistici e può considerarsi una summa
della ricchezza affabulatoria della narrativa siciliana.
Il suo ultimo cimento narrativo è stato l'immaginoso e
ironico Cima delle nobildonne (1985).
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