La
galassia mafiosa, ovvero: ne uccide di più la penna o la
lupara?
Un’utile
e ampia ricognizione sul tema della presenza in
letteratura dell’universo (ideologico, antropologico,
economico, sociale) dell’essere e del sentire mafioso è
quella tentata da Sciascia, già nel 1964, con il suo Letteratura
e mafia contenuto in Cruciverba. È inutile
sottolineare come lo scritto abbia una sua centralità
anche nell’itinerario dello scrittore racalmutese
essendo egli l’autore che ha dedicato al fenomeno le
indagini e le riflessioni più significative, contribuendo
così a far conoscere all’Italia intera la radicazione,
l’entità e l’ampiezza del problema. Il Giorno
della civetta, del 1961, fu in questo senso un’opera
rivoluzionaria, una crepa che incrinava un compatto muro
di omertà
intellettuale e politica, che faceva negare la consistenza
e persino l’esistenza del fenomeno
Mafia.
Da
allora Sciascia investirà molte delle sue energie
nell’analisi e nell’illustrazione di questo tema,
scontando anche di persona fraintendimenti,
strumentalizzazioni e attacchi personali da parte di forze
che ancora oggi tentano di mettere in discussione la
coerenza e l’acutezza delle sue conclusioni.
Prima di lui, in letteratura, la mafia era vista
alla stregua di un fenomeno dai connotati romantici più
che il perverso intreccio affaristico tra Potere, Lavoro e
Società additatoci dall’autore di A ciascuno il suo
e del Contesto e che due decenni di Antimafia
hanno poi
spiegato a tutti gli italiani.
Per
trovare significative tracce di Cosa
Nostra nelle
opere letterarie bisogna risalire alla commedia I
mafiusi di la Vicaria (1863) di Giuseppe
Rizzotto e Gaspare Mosca.
Per un secolo, però, da allora, graverà sui letterati la
responsabilità di aver fatto da cassa di risonanza a
quella mitologia mafiosa di colore romantico che pure le
inchieste parlamentari di Franchetti
e Sonnino o
quelle giudiziarie di prefetti come il palermitano Filippo
Gualtierio avevano
cominciato a demolire già negli stessi anni in cui il
tema conosceva i suoi primi sviluppi.
Fino
a Sciascia, il mafioso sarà considerato alla stregua di
un Robin Hood siciliano e questo cliché troverà
veicolo di diffusione attraverso tanta letteratura
d’appendice, notoriamente consumata soprattutto da
comuni e poco smaliziati lettori popolari.
Un
esempio è dato da una figura ideologicamente sfuggente di
letterato come è quella di Luigi
Natoli,
cui si deve ascrivere, ad esempio, la riduttiva e
semplicistica opinione che la settecentesca associazione
dei Beati Paoli, intorno cui lo scrittore palermitano
edificò il suo romanzo più famoso, fosse fenomeno
affatto riducibile alle successive consorterie mafiose. Ciò
in virtù della sua a-storica versione delle imprese della
setta, compitata sulla scorta dei Diari
del Mongitore e della Storia
dei viceré di Sicilia del Di Blasi, ma accostabile a
certi riverberi eroicizzanti del fenomeno mafioso
irradiati, nella letteratura siciliana primonovecentesca,
da autori come Giovanni
Alfredo Cesareo.
Una lettura apologetica al cui fascino non resterà
estraneo neanche il Capuana dell’Isola del sole,
in ogni caso stridente con la fisionomia del fenomeno
ricavabile da una tradizione che, da Vincenzo Linares e
dal marchese di Villabianca, arriva fino a Salvatore
Salomone Marino e Giuseppe
Pitrè.
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