L’invenzione
della Sicilia
In
definitiva, in cosa consiste la sicilianità
letteraria, ossia l’elemento coesivo, il minimo comune
denominatore che lega assieme tante esperienze e legittima
l’assunzione dell’espressione stessa di “letteratura
siciliana”?
Un
primo aspetto è dato dalla pendolarità, che riguarda
soprattutto gli scrittori siciliani del periodo
post-unitario: Verga e Capuana prima, Vittorini, Quasimodo,
Brancati, D’Arrigo
in qualche
modo Sciascia e sicuramente Consolo poi, avranno bisogno
di allontanarsi dalla terra d’origine per poterla
riconquistare pienamente. Tutti riusciranno a dare
un’impronta e un colore alla storia italiana, pur
restando profondamente legati alla cultura d’origine:
Verga, Vittorini, D’Arrigo a quella orientale del mare e
del contado, Sciascia a quella centrale della zolfara, cui
appartengono anche Pirandello e autori meno noti come
Savarese e Lanza. E questo, spesso, con l’intento di
riscoprire e reinventare la Sicilia anziché semplicemente
raccontarla. Lo spirito con cui questi scrittori si sono
appressati a leggere la cultura meridionale non è molto
diverso dal senso di stupore e curiosità, dall’ansia
del confronto che ebbero i grandi viaggiatori europei del
XVII e del XIX secolo (Rochefort, Houel, Hamilton, Brydone,
Von Riedesel, Goethe). In qualche caso, come in Conversazione
in Sicilia del siracusano Vittorini, la ricerca ha
coinciso con un tema che è quello del viaggio simbolico,
dell’itinerario al fondo dell’inconscio, verso le
Madri, verso archetipi pagani. Allo stesso modo Horcynus
Orca, il fantastico romanzo di Stefano D’Arrigo,
persegue lo stesso motivo dell’impossibile nostos
omerico, del viaggio verso le origini del giovane marinaio
siciliano ‘Ndria Cambria, reduce dalla guerra e di
ritorno verso la terra natale, che può configurarsi solo
nella modalità di un regressus ad uterum nel
grembo della madre filogenetica (il mare), tra creature
misteriose e ambigue, tra visionarie istanze ed epiche
rappresentazioni.
L’altro
dato incontrovertibile è che i siciliani – e questo sin
dalla scuola poetica sorta all’interno della corte sveva
- sono stati sempre scrittori dell’espressività, cioè
creatori di singolari invenzioni linguistiche, di impasti
perfettamente coerenti di elementi dialettali, arcaismi,
neologismi e linguaggio colto e ufficiale, e questo perché
costretti sovente a misurarsi con una lingua “altra”
da quella cui la marginalità geografica li costringeva.
Non sempre questo è stato immediatamente percepito e il
caso Verga, in questo senso, è emblematico: incompreso
dal suo stesso editore, ignorato dalla critica a lui coeva
(con le sole eccezioni di Gualdo e Boito), persino evitato
dai suoi concittadini (“come se avessi commesso una
cattiva azione”, aveva scritto all’amico Capuana)
l’autore dei Malavoglia avrebbe dovuto aspettare
il 1903 perché gli fosse riconosciuto (da Croce prima, e
sulla scia di questi da Serra, Russo, Pirandello, Tozzi,
Jahier e Palazzeschi) il posto che gli compete nella
letteratura italiana.
Un
caso, quello di Verga, non isolato e in grado, anzi, di
creare altri casi letterari con al centro scrittori
siciliani: dal caso Lampedusa sul finire degli anni
Cinquanta al caso D’Arrigo, alla fine dei Settanta, al
caso Bufalino negli anni Ottanta, fino all’odierno caso
Camilleri. Tutti scrittori diversamente significativi, ma
con in comune l’esigenza di porsi come artefici di
codici di comunicazione complessi eppur perfettamente
rispondenti ai fatti e alle idee che da sempre i siciliani
hanno voluto raccontare.
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