Sotto
il segno dei gattopardi
Letterariamente
parlando, due sono i momenti in cui la Sicilia ha fatto
scuola: il primo è la grande stagione federiciana della
scuola poetica siciliana, a partire dagli anni Trenta del
XIII secolo. Alla corte dell’imperatore svevo Federico
II, funzionario del governo come «il Notaro» Iacopo
da Lentini,
il giudice messinese Guido delle Colonne o il suo
concittadino Stefano Protonotaro maneggiavano la lingua
come un alchimista avrebbe usato i propri alambicchi:
sperimentando, torcendo e sforzando il volgare siciliano,
per contaminarlo con la lirica cortese di marca
provenzale. Fu così che nacque il moderno sonetto. Quegli
uomini facevano ciò fedeli all’idea che avrebbero così
reso un servizio all’imperatore, assolutamente decisi a
mostrare come la lingua avesse una precisa funzione
sociale, potesse rappresentare pienamente il prestigio
della magna curia.
Dovranno
però passare più di sei secoli prima che la Sicilia
torni a costituire una “propria” letteratura,
intendendo con ciò una precisa e originale linea, una
tradizione che si dipana a partire da Verga e Capuana per
arrivare agli odierni Vincenzo
Consolo e
Andrea
Camilleri e
che quasi mai risulta regionalistica, ponendosi in
rapporto dialettico tanto con la letteratura italiana tout
court quanto con le letterature europee, la francese e
la spagnola su tutte.
Nei
Malavoglia, in cui la vicenda della comunità di
Acitrezza diventa il terreno di verifica di una storia che
aveva lasciato in eredità secoli di arretratezza
socio-economica, ma ancor più nell’ impietosa lettura
del Risorgimento che Verga opera con la rusticana Libertà,
l’annessione della Sicilia al regno unitario diventa il
termine ante e post quem misurare il destino
dell’isola. Evento mitizzato, quanto traumatico, per i
siciliani, che vi leggeranno l’ennesimo tradimento
perpetrato a loro svantaggio, l’appena evidente
modificazione dello status quo che lasciava intatti
i privilegi delle vecchie élites vanificando ogni
slancio progressivo.
La
spietata constatazione di una cronica latitanza dello
Stato nutre di risentimento lo scetticismo
antistoricistico e demistificatorio del De Roberto dei Vicerè,
romanzo non sufficientemente preso in considerazione nei
programmi scolastici e che è invece la più lucida
analisi dell’intima vocazione al trasformismo della
nostra classe politica e tra le più inquietanti
prefigurazioni letterarie di futuri scandali, Tangentopoli
compresa.
Inizia
con De Roberto una vera e propria controstoria scritta dai
letterati e che ha avuto, ancor più che il merito della
denuncia, quello della rappresentazione dei meccanismi
socio-economici che hanno fatto sì che in Sicilia tutti i
momenti che avrebbero potuto segnare delle svolte
importanti siano stati puntualmente disattesi. Esiste,
tuttavia, una linea di continuità con l’esperienza
verghiana, almeno a partire da un motivo, quello
familiare, che già l’autore dei Malavoglia aveva
individuato come il tratto fondamentale per spiegare le
vicende post-unitarie. La storia della famiglia
Toscano è
l’apologo più desolato di come, con l’avanzare del
Progresso, si stesse sgretolando il fondamento di gran
parte della cultura e dell’identità meridionale: la «religione
della famiglia» di Padron
‘Ntoni è
travolta dall’incedere dei nuovi tempi, la sua logica
conseguenza sarà il familismo
amorale dei
riottosi, aggressivi, rapaci e spregiudicati Uzeda
Francalanza derobertiani.
La battuta pronunciata dal duca Gaspare
d’Oragua nel
romanzo («Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli
affari nostri”), rovesciamento della celebre massima di
D’Azeglio, è il motto in cui si inscrive tutta la
successiva narrativa antistorica dei siciliani.
Al
risorgimentale e positivista ottimismo della volontà, i
siciliani preferiranno un più adeguato pessimismo della
ragione. Nel 1913, I Vecchi e i giovani di
Pirandello, tutto giocato sull’emblematico asse
affaristico Roma-Sicilia e sulle vicende dei principi
Laurentano, dai mesi che precedono le elezioni del 6
novembre 1892 alla proclamazione dello stato
assedio in Sicilia decretato
da Crispi nel 1894, passando per lo scandalo della Banca
Romana, confermerà questa prospettiva storica
antirisorgimentale, aggiungendovi il contrappunto di una
più mirata analisi politica capace di addebitare anche
all’impreparazione politica delle masse siciliane e alla
mancanza di collegamento di queste con l’inetta e
amorale classe dirigente borghese e aristocratica, le
responsabilità del fallimento di iniziative pur
rivoluzionarie come l’utopia socialista dei Fasci.
Su
questa scia di denuncia del perenne trasformismo delle
oligarchie dominanti, di epoca in epoca, si porranno altri
autori: Brancati nel secondo dopoguerra; Giuseppe
Tomasi di Lampedusa col
suo Gattopardo, risposta aristocratica e ancor più
reazionaria alla tesi derobertiana (i veri portavoce di
quella concezione inaugurata dai Vicerè saranno
ora le iene borghesi che hanno soppiantato gli antichi
gattopardi); lo Sciascia della rilettura storica del Consiglio
d’Egitto nonché il civile e vigile ammonitore dei
rischi di un trasformismo mafioso; il Bufalino delle Menzogne
della notte, metafisica
meditazione sulle imposture del vivere e del morire; il
Consolo del Sorriso
dell’ignoto marinaio e
di Nottetempo casa per casa.
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