La
cattiva politica e la cattiva economia
Il modello di industrializzazione scelto negli anni Sessanta
per la Sicilia si sarebbe rivelato particolarmente
fragile nei decenni successivi.
Infatti la crescita urbana
si svolse in questa regione, più che altrove,
all’insegna della totale assenza di norme. Le grandi
città come i piccoli centri si espansero senza piani
regolatori. Esplose l’abusivismo edilizio; le città,
come le aree costiere, vennero letteralmente deturpate
dalla febbre del mattone e dal cattivo gusto.
Parallelamente l’emigrazione svuotò soprattutto le
zone interne e lasciò interi paesi della montagna e
della collina in una situazione di totale abbandono e
di progressivo degrado fisico.
Negli
anni Settanta, al fine di non compromettere la
cospicua domanda di prodotti industriali e di beni di
consumo proveniente dalle regioni meridionali, la
spesa pubblica fu finalizzata soprattutto alla
realizzazione di opere e attività rispondenti non
alle utilità del territorio o dei cittadini, ma
piuttosto alla creazione di occupazione e stipendi.
Iniziò una storia di lavori mai finiti o malfatti per
potervi nuovamente mettere mano, di mancata
manutenzione, di maggiorazione continua dei costi, di
crescita del settore impiegatizio e delle pensioni di
anzianità e invalidità (spesso falsa); ovvero di
dilapidazione del denaro pubblico.
Alla generosa fonte della spesa pubblica
attinsero sia la cattiva politica che la cattiva
economia. Com’è noto i partiti di governo presero
l’abitudine a finanziarsi attraverso le tangenti
ottenute con i lavori pubblici. Questi ultimi venivano
assegnati alle imprese senza bandi di gara.
Il
fenomeno che tuttavia incise in maniera più rilevante
sull’economia siciliana, cristallizzandone per
decenni sia la cattiva politica che la cattiva
economia, fu il salto di qualità compiuto dalla mafia
siciliana che
negli anni Sessanta-Settanta si diede al grande
traffico di stupefacenti ed armi, conseguendo profitti
inimmaginabili. Per reimmettere nell’economia legale
gli enormi proventi delle attività illecite la mafia
entrò in tutti i possibili campi di attività
attraverso i quali transitavano ingenti capitali: le
opere pubbliche e le banche. Le imprese mafiose
espansero enormemente la loro presenza sul territorio
non solo della regione ma anche nazionale, e videro
crescere la loro potenza internazionale. Ma
soprattutto entrarono a pieno titolo nel circuito
degli appalti e dell’economia pubblica, che in
Sicilia sopportò il doppio peso della corruzione
tangentizia e della criminalità organizzata.
Molti giudici
impegnati
nella lotta alla mafia sono stati com’è noto
assassinati, insieme a molti poliziotti e uomini delle
forze dell'ordine, per averne evidenziato il carattere
di specifica associazione a delinquere a scopo di
lucro, mentre la cattiva politica e le cattive imprese
continuavano o a negare il fenomeno o ad accreditare
l’idea di un fatto culturale fondato sui cosiddetti
“valori tradizionali”. Dalla ricerca giudiziaria e
dalla precisa individuazione delle attività criminose
è venuta anche una grande lezione: il passato della
Sicilia non è stato legato in maniera sostanziale al
sistema mafioso, per sua natura illegale e
monopolistico, ma piuttosto a relazioni economiche e
culturali con il resto del mondo svolte all’insegna
della libera concorrenza e della certezza del diritto.
La vitalità politica, culturale e
imprenditoriale della Sicilia di oggi, parte di
un’Europa tutrice della legalità e della
concorrenza, ne sono una conferma e inducono a
sperare.
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