Lo stereotipo
dell’arretratezza
Le
vicende qui esposte meritano attenzione per almeno due
ragioni. Innanzitutto, perché smentiscono clamorosamente
lo stereotipo dell’arretratezza meridionale, mandando in
frantumi l’immagine cristallizzata di un Sud tutto e da
sempre “depresso”, condannato all’immobilismo delle
tare feudali del latifondo
e della mancanza di capitali. La storiografia più recente
sta finalmente smontando pezzo per pezzo questo logoro
armamentario concettuale, che aveva finito per cancellare
intere sezioni - e le più significative! - della storia
del Mezzogiorno: le trasformazioni del paesaggio agrario,
l’esistenza di uno scenario urbano di città medie, i
processi di mobilità sociale innescati dall’emergere
delle borghesie locali, nell’insieme le forme e i tempi
di una “difficile modernizzazione”. I protagonisti in
questo caso non sono nobili spiantati né plebi rurali in
bilico tra atavica rassegnazione e anarchico ribellismo,
ma sono piuttosto proprietari-modello, imprenditori,
mercanti e banchieri, esponenti di una solida borghesia
delle professioni, che non si limitano a tesaurizzare
passivamente la rendita fondiaria ma che invece tentano di
coniugare risparmio e investimento, sviluppo e
occupazione.
La seconda ragione attiene ai caratteri originali del
territorio in cui si è incardinata la storia
dell’agricoltura iblea, quella vasta Contea
degli Henriquez-Cabrera che lungo l’età
moderna, dalla fine del XV secolo agli inizi del XIX,
aveva sperimentato, con la diffusione dell’enfiteusi,
forme precoci di frazionamento terriero e di uso intensivo
dei suoli. L’incidenza marginale del latifondo e la
presenza di élites locali aperte alle innovazioni
agronomiche e alle sollecitazioni produttive del mercato
internazionale, soprattutto a partire dalla metà del
’700, hanno alimentato un lento ma costante processo di
colonizzazione e di trasformazioni fondiarie che hanno
plasmato lo spazio geografico e sociale, imprimendovi i
segni marcati del capitalismo. L’espansione ottocentesca
del vigneto nella pianura vittoriese, il massiccio
impianto di carrubeti e oliveti nella bassa collina, la
rotazione cereali/allevamento nell’altopiano e la
diffusione novecentesca dei primaticci e delle colture
protette lungo il periplo costiero non solo hanno mutato
le vocazioni ambientali del paesaggio agrario, ma hanno
modificato in profondità anche i tradizionali equilibri
fra città e campagna, immettendo linfa nuova nel sistema
policentrico delle cittadelle iblee, che oggi assolvono le
funzioni terziarie e commerciali di centri urbani al
servizio di una campagna “ricca”.
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