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Passato prossimo

           Per chi puntava su una modernizzazione a tappe forzate il passato era infatti un intralcio. In esso si concentravano i fattori che avevano determinato i ritardi, le origini di una questione siciliana vissuta come parte della più larga questione meridionale. Ma anche per chi credeva in una liberazione sociale prossima ventura, il passato era il regno di una sopravvivenza feudale dalle mille vite, all'ombra di quel latifondo in cui tutto cambiava per non cambiare mai. Per gli uni e per gli altri insomma il passato era ciò che impediva alla Sicilia di correre appieno la gara del progresso, di imitare le regioni del Nord, di cogliere al volo, alla fine degli anni Cinquanta, la stagione felice del boom economico e della industrializzazione a tappe forzate.

Per tutti, poi, il passato più vicino, il ricordo del regime nel suo crepuscolo, era una vita stentata, vissuta in paesi privi di attrattive e di lavoro, fatta di poveri mestieri che non offrivano prospettive e di una violenza antica, disperante: il simbolo, in altre parole, di un'esistenza senza orizzonti, qualcosa da gettar via insieme ai vecchi mobili dei nonni. Il futuro era altrove, nell'America dei parenti emigrati, nella Germania della Volkswagen, nelle metropoli del nord, regno della produzione metalmeccanica e dell'edilizia industriale. Oppure ancora nelle città siciliane che si gonfiavano di abitanti, espandendosi in enormi quartieri di nuova costruzione, regno della fórmica e, presto, della TV.

Città del terziario prodotto di una spesa pubblica orientata al sostegno alla domanda, città di impieghi e di impiegati allontanatisi da una campagna sempre più senza uomini. Città degradate, carenti di molti servizi essenziali, ma tuttavia capaci di offrire per la prima volta un distacco definitivo dal mondo del bracciantato povero, quello in cui uomini e animali dormivano insieme, fianco a fianco, in case che parevano, ed erano, tuguri. Città distruttici di passato, anche, con le palazzine costruite equanimemente su villini liberty e necropoli preistoriche, affacciate sulla valle dei Templi o sulle ville di Bagheria, proliferanti, senza piani e senza regole, nell'incuria, completa di un mondo vecchio che andava soltanto, semplicemente rimosso, e dimenticato.

          Non diversamente i nuovi impianti industriali, specie nel settore del petrolchimico, devastavano ampie zone di costa, inquinando il mare e la terra, ma al contempo offrivano stipendi, e una decorosa, minima, rispettabilità. E le infrastrutture realizzate, spesso in spregio di qualunque vincolo, finivano comunque per aiutare a realizzare anche in Sicilia quella che è stata chiamata la “grande trasformazione”, il passaggio difficile e distruttivo dalla campagna alla città, dalla terra al terziario, dall'analfabetismo all'istruzione, dalla visione rurale del mondo a quella cittadina e poi televisiva. 



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