L’economia
e la politica
La
cultura economica dei ceti dirigenti era imperniata
sull'investimento dirigista, dall'alto, indirizzato
verso obiettivi determinati dal centro, selezionati
entro camere di compensazione opache, che si
ammantavano di una cultura tecnocratica ormai in via
di esaurimento per nascondere la crescente fragilità,
e con essa l'incapacità a resistere alle logiche
della mediazione clientelare. La cultura politica, a
sua volta, appariva prigioniera di un'autonomia senza
capacità contributiva e dunque senza responsabilità.
Le risorse venivano esclusivamente da Roma e di
conseguenza il ceto politico si rinchiudeva in una
funzione lucrosa di mediazione, confliggendo
essenzialmente per la loro distribuzione, al di là
delle differenze ideologiche e di dirittura morale,
pure talvolta sensibili.
Il
consenso siciliano alle politiche governative, così
cruciale per la stabilità politica nazionale,
attirava iniezioni consistenti di spesa pubblica a
conservazione degli equilibri dati, afflussi di denaro
che a sua volta producevano un'elefantiasi del mercato
della politica. Ciò induceva gravi alterazioni delle
logiche di concorrenza: gli imprenditori si trovavano
a dover competere con altri imprenditori, nati e
cresciuti nelle pratiche del sottogoverno e perciò più
capaci di aggiudicarsi le gare degli appalti pubblici.
Questi ultimi, veri e propri imprenditori politici, a
loro volta, venivano spiazzati dall'irrompere di altri
imprenditori allevati all'ombra della grande
criminalità organizzata, cresciuta enormemente nella
lunga stagione del sacco edilizio urbano e quindi, a
partire dagli anni Settanta, grazie al lucroso
traffico della droga. Come la moneta cattiva scaccia
quella buona così l'imprenditore-politico scaccia
l'imprenditore di mercato e l'imprenditore mafioso
quello politico.
Nel
corso degli anni Ottanta è come se i mali di questa
economia assistita avessero toccato il culmine in un
intreccio perverso in cui economia politica e malavita
apparivano inestricabilmente legate. I corposi grumi
di interesse della rendita urbana di origine
impiegatizia sembravano dar vita a blocchi sociali di
enorme ampiezza e consistenza, preoccupati
essenzialmente della difesa di posizioni di recente
acquisizione, e perciò propensi alla conservazione
sociale. E per gli esclusi dalla torta del (relativo)
benessere non pareva esserci altra strada che
sottomettersi alla mediazione politica come soluzione
di tutti i problemi, corporativi, di gruppo,
personali. La Sicilia viveva così in quegli anni il
suo momento peggiore, quasi a dar ragione a chi, come Leonardo
Sciascia, ne coglieva l'essenza in quella
condizione dannatamente e sublimemente insulare che ne
faceva un mondo separato, emblematico, quintessenza
del male assoluto. Il passato si presentava allora
come un destino immutabile e tutto pareva ormai
irrimediabilmente perduto, anche la speranza.
...::::
torna
su
...:::: vai
paragrafo successivo
...:::: vai
paragrafo precedente
...:::: torna
al sommario della lezione
|