Le
donne cardine della struttura familiare
Le
donne erano un cardine di questo sistema. Esse di solito
sopravvivevano ai mariti, perchè non svolgevano il
lavoro agricolo nei latifondi, per il quale non
avrebbero avuto forza fisica sufficiente, ma restavano,
più protette, nelle case in paese, impegnate nelle
filatura e tessitura domestiche. Di conseguenza, erano
spesso eredi e tutrici dei figli. Alle donne, quando si
sposavano, venivano trasmessi in dote
i pochi beni immobili, la casa, una piccola vigna o un
orto, proprio perché rappresentavano un elemento di
stabilità e di continuità biologica e sociale. I
fratelli avrebbero ereditato quanto restava più tardi,
alla morte dei genitori. Ai maschi giovani, per iniziare
la loro precoce vita coniugale, non era infatti
necessario che il vigore fisico per lavorare;
l'abitazione, anche se limitata allo stretto
indispensabile e spesso misera, era garantita dalla dote
della sposa. Si
trattava dunque di famiglie neolocali,
che andavano a risiedere in un'abitazione diversa da
quella dei genitori o dei suoceri che con molti
sacrifici l'avevano procurata, iniziando così un ménage
separato da quello delle generazioni precedenti.
La
dote era una
forma particolare di proprietà, un modo per le donne di
ereditare, al momento del matrimonio, la loro quota del
patrimonio familiare. Nata nell'ambito del diritto
romano e stipulata presso un notaio perché
avesse valore legale, la dote serviva, in molte
situazioni italiane e non, a lasciare alle donne solo
una parte minore dei beni di famiglia, privilegiando
come eredi i fratelli della sposa. Tuttavia, in Sicilia,
la dote era invece una parte molto importante dei
lasciti familiari. Tra i contadini, o tra i ceti
subalterni delle città, essa poteva essere anche
uguale, o quasi pari, alle parti che sarebbero poi
toccate ai fratelli; poteva essere composta, oltre che
dal corredo di biancheria, dal letto, da denaro e
gioielli, anche da beni immobili: era il caso delle
donne della "Sicilia del grano", che
ricevevano, preferite ai fratelli, la casa e un pezzo di
terra.
Il ruolo forte e paritario delle donne nel
sistema di divisione dei beni in Sicilia era antico.
Fino alla metà del XIV secolo la consuetudine
urbana era stata la comunione
dei beni tra i coniugi e con i figli,
detta "comunione tripartita": in caso di
divisione del patrimonio, un terzo sarebbe spettato alla
moglie, un terzo al marito, un terzo ai figli senza
distinzione di sesso. Benché le successioni
feudali fossero invece in linea di principio
rigorosamente agnatizie, patrilineari e maschili, e
assegnassero i titoli nobiliari e la maggior parte del
patrimonio a un erede unico maschio, liquidando le donne
e i cadetti
con adeguati appannaggi, tuttavia le aristocratiche, in
assenza di altri eredi, potevano ricevere in dote o in
eredità titoli e feudi, trasmettendoli a loro volta ai
figli e trasferendoli così al lignaggio
del marito.
Negli
atti notarili conservati negli archivi compaiono sovente
donne che direttamente amministravano i beni,
effettuando operazioni di compravendita, affittando e
concedendo prestiti. Il ruolo svolto dalle donne
dell’aristocrazia, per rilevanti somme di denaro o su
importanti estensioni agricole si ritrova, su piccola
scala, anche in molti casi di donne, semplicemente
agiate e intraprendenti, che mettevano a frutto il
proprio denaro o che esercitavano personalmente, o
trasmettevano il diritto di esercitare, alcuni mestieri.
Nel costume siciliano, infine, anche il linguaggio delle
relazioni sociali e familiari dà grande importanza alle
donne. La parentela bilaterale,
o cognatica, era un carattere di lunga durata: venivano considerati parenti, e
dunque potenziali eredi o collaboratori e soci, sia i
congiunti della moglie che quelli del marito.
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