Banditismo
Il banditismo si diffuse in Sicilia immediatamente dopo
l’unità d’Italia, cioè nello stesso periodo del
brigantaggio, e fu affrontato dal governo con la
stessa durezza. Quello del banditismo può essere
descritto come un fenomeno intermedio tra il
brigantaggio e la mafia: i banditi, come i briganti,
erano per lo più contadini poveri, organizzati
per bande che si spostavano da un villaggio
all’altro. I centri raggiunti venivano occupati con
le armi e venivano imposti pagamenti in denaro o il
mantenimento delle bande. Il banditismo però, al
contrario di quello che avvenne nel continente, non
aveva in Sicilia
alcun intento politico: l’influenza degli agenti
borbonici era nell’isola pressoché nulla e i
banditi erano per lo più lontani da rivendicazioni di
tipo economico – sociale.
Comune a tutti e tre i fenomeni – brigantaggio,
banditismo, mafia – era il controllo del territorio
in sostituzione dello Stato: tutti e tre erano dunque
fenomeni eversivi, particolarmente pericolosi per lo
Stato, situati a un livello di criminalità superiore
a quella comune.
Notabili
Erano coloro che, nell’Italia liberale di fine Ottocento
e inizio Novecento detenevano il potere politico ed
economico, contando sulla capacità di tessere reti
clientelari che assicuravano loro il rinnovo del
mandato parlamentare. Espressione in epoca post
risorgimentale soprattutto della grande proprietà
terriera, la tipologia dei politici professionali si
era rinnovata nella Sicilia di inizio Novecento,
legandosi anche ai settori dell’imprenditoria, delle
infrastrutture e del terziario urbano, ed esercitando
un ruolo di mediazione tra i diversi segmenti della
borghesia rurale e urbana.
Quando, dopo il fascismo, la Sicilia si riaffacciò
alla vita democratica, il notabilato, egregiamente
sopravvissuto alla dittatura, si riaffacciò sulla
scena politica. Così, alla fine del 1943, il capitano
americano W.E. Scotten, autore di importante relazione
sulla presenza mafiosa in Sicilia, descriveva la
ricomparsa dei notabili:
"I
politici professionali dell'era prefascista sono
pochi, anziani e cinici, ma hanno l'enorme vantaggio
dell’ esperienza politica e a loro disposizione le
intelaiature delle antiche organizzazioni (machines).Sono
particolarmente attivi nella ricostruzione delle foro
clientele (fences)
e si mantengono indipendenti, tendono a formare
partiti per conto proprio o ad allinearsi con i gruppi
piú piccoli, come i liberali, il partito d'azione, o
meglio ancora con i separatisti.
Sono prudenti, non si
pronunciano e fanno una politica d'attesa per
vedere da quale parte spira il vento.
Alcuni flirtano con ciò che resta della
vecchia mafia politica.
Una piccola parte di essi è perfino impegnata
nella Democrazia cristiana.
"
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Campieri
Erano i guardiani delle grandi aziende agrarie: uomini di
fiducia dei grandi proprietari, che avevano compiti
generali di sorveglianza sulle proprietà.
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Latifondo
Proprietà terriera di grandi dimensioni, destinata a una
coltivazione estensiva. Il latifondo era
caratterizzato da vaste aree incolte (in genere
utilizzate per la pastorizia) e da aree di coltura
estensiva, ossia coltivate con scarsi investimenti di
capitale di lavoro. Tipica del latifondo era quindi la
coltura a cereali che non richiede né impianti di
irrigazione – o altre strutture costose - né
manodopera specializzata. Caratteristici erano gli
insediamenti dei lavoratori agricoli intorno al
latifondo, organizzati in pochi grandi nuclei, situati
lontano dai luoghi di lavoro.
Gabellotto
Gabellotto
era in Sicilia colui che pagava la gabella, cioè la
tassa di affitto per una proprietà, di solito di
grande estensione, dunque un “fondo”. Si trattava
quindi quasi della stessa figura dell’affittuario,
se non che il gabellotto, nella maggior parte dei
casi, non coltivava il fondo in prima persona, ma lo
appaltava ad altri, gravando il lavoratore finale di
un costo di intermediazione.
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Manutengoli
Letteralmente
vuol dire “coloro che tengono per mano”, e
significa complici, favoreggiatori. Tutte le grandi
organizzazioni criminali comprendono nelle loro file
una vasta rete di complici che, pur non compiendo mai
delitti in prima persona, favoriscono i criminali,
danno loro rifugio e protezione, si preoccupano di
sviare le indagini, eccetera.
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Franchetti e Sonnino, La Sicilia nel 1876
All’indomani
dell’Unità d’Italia Leopoldo Franchetti e Sidney
Sonnino, esponenti di quel riformismo illuminato la
cui matrice era il nuovo pensiero conservatore nato
dal fallimento della Destra storica, si proposero di
analizzare sul campo il problema dell’arretratezza
meridionale, a partire dallo studio delle condizioni
economiche e sociali della Sicilia.
La pubblicazione della loro celeberrima inchiesta
condotta in Sicilia nel 1876, restituiva, dell'isola,
un'immagine impietosa, quella di una terra barbara, e
assumeva come dato ovvio la presenza di una
"classe dei facinorosi", "una classe
con industria ed interessi suoi propri, una forza
sociale di per sé stante", e di una mentalità
latamente mafiosa, diffusa capillarmente tra la
popolazione, mentre imputava il fenomeno criminale
alla persistenza di strutture feudali, insomma al
mancato appuntamento della regione con la
modernizzazione nazionale.
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Il diritto di voto
Lo Stato liberale, che garantiva a tutti i cittadini i
diritti civili, non riconosceva a tutti i diritti
politici. Infatti, il diritto di voto era inizialmente
riservato a pochi. In Italia, nei primi decenni dopo
l’Unità, il
diritto di voto, concesso solo agli uomini, era
attribuito sulla base della ricchezza: poteva votare
chi pagava oltre una certa cifra di tasse. Il corpo
elettorale (l’insieme dei cittadini che possono
esercitare il diritto di voto) era un’esigua
minoranza, di poco inferiore al 2 per cento della
popolazione. La riforma del 1881 portò il corpo
elettorale al 7 per cento, estendendo i diritto di
voto a chi sapeva leggere e scrivere; il criterio
dell’istruzione fu affiancato al criterio della
ricchezza. Il suffragio universale (vale a dire il
diritto di voto per tutti gli adulti, anche se
analfabeti) fu introdotto solo nel 1913, ma era
riservato solo agli uomini. Le donne ottennero il
diritto di voto solo dopo la seconda guerra mondiale,
e lo esercitarono per la prima volta nel 1946.
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Tangente
Richiesta di denaro in cambio di favori, per la
protezione di attività economiche di vario
tipo, o per essere privilegiati nell’assegnazione di
appalti pubblici. come nel caso del mondo poitico.
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Cosca
E’ un termine che viene usato esclusivamente per indicare
un gruppo organizzato di mafiosi siciliani. La cosca
non è una struttura cui si appartiene
"naturalmente", come la famiglia, ma
un'associazione di eletti, o di iniziati,
in cui si entra e a cui si deve giurare fedeltà.
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Fratellanza
Si tratta di un termine di derivazione massonica. Sta qui
ad indicare un’associazione di tipo settario, che
prevede un “rito di iniziazione” per l’accesso
di nuovi adepti.
Un’ esempio può essere quello della
Fratellanza di Favara, in provincia di
Agrigento, estesa a vari paesi dell'area dello zolfo e
del latifondo. Contava oltre 500 soci, per lo più
zolfatari, contadini e artigiani, e funzionava
ambiguamente anche come società di mutuo soccorso.
Una guerra intestina permise alla forza pubblica di
scoprire l'organizzazione. La Fratellanza era
organizzata su base intercomunale: uno o più
capi-testa comandavano
più capi-decina, ognuno dei quali aveva sotto
di sé non più di dieci soci. La struttura
organizzativa, le modalità di accesso e il
giuramento, con espliciti riferimenti a cerimonie di
stampo settario (carboneria, massoneria, ecc.), erano
simili a quelle delle altre cosche mafiose. Il
processo alla Fratellanza di Favara si svolse nel 1885
e, non disponendo il tribunale di aule
sufficientemente capienti, si celebrò in una chiesa
di Agrigento: gli imputati (solo del reato di
associazione a delinquere) furono quasi tutti
condannati.
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Le considerazioni di Santi Romano
"E' noto – scriveva il giurista palermitano Santi
Romano - come
sotto la minaccia delle leggi statuali, vivono spesso,
nell'ombra, associazioni, la cui organizzazione si
direbbe quasi analoga, in piccolo, a quella dello
Stato: hanno autorità legislative ed esecutive,
tribunali che dirimono controversie e puniscono,
agenti che eseguono inesorabilmente le punizioni,
statuti elaborati e precisi come le leggi statuali.
Esse dunque realizzano un proprio ordine, come lo
Stato e le istituzioni statualmente lecite".
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Faida
Si ha una faida quando
due famiglie (intendendo con questo termine tutta la
parentela, fino ai gradi più lontani) combattono fra
di loro e sono divise da un’inimicizia profonda. In
particolare si parla di faida quando la
contrapposizione tra le due famiglie sfocia in atti di
violenza che portano a vendette incrociate, e quindi a
uno stato di inimicizia che si protrae per molti anni.
Il termine faida deriva dal tedesco “fehida”
(nemico). Gli natichi codici di legge germanici
permettevano alla vittima di un omicidio di vendicarsi
sulla famiglia dell’assassino. La famiglia si
riuniva in un consiglio allargato e decideva se
intraprendere la “fehida”.
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Traffico
degli stupefacenti
L'ingresso dei mafiosi associati a Cosa Nostra siciliana
nel commercio clandestino di narcotici risale agli
anni immediatamente successivi alla fine della seconda
guerra mondiale quando
numerosi esponenti di Cosa Nostra - tra cui il
boss italo americano Lucky Luciano - furono coinvolti
nella diversione sul mercato illecito dell'eroina
prodotta da alcune case farmaceutiche dell'Italia
settentrionale.
Per molto tempo tuttavia, il commercio di narcotici
mantenne proporzioni relativamente contenute e fu solo
alla fine degli anni Settanta che avvene il vero salto
di qualità, quando le famiglie siciliane dei cugini
Rosario Spatola e Salvatore Inzerillo, dei Badalamenti,
dei Bontade insieme alla famiglia americana dei
Gambino (Carlo Gambino era cugino di Inzerillo)
sostituirono i marsigliesi sia nella raffinazione
della morfina base proveniente dall'Asia del sud-est
che nella vendita dell'eroina all'ingrosso per il
mercato statunitense, realizzando quell'imponente rete
di traffico illegale denominata
"Pizza Connection". Le famiglie
mafiose "garantivano" le transazioni
complesse e illegali. Truffe, inganni e sospetti erano
comunque all'ordine del giorno. Segno visibile di
questa nuova attività furono i laboratori per la
raffinazione costruiti nei dintorni di Palermo,
realizzati grazie ai proventi ottenuti da altre
attività (edilizia, intervento pubblico, esattorie).
Il traffico degli stupefacenti portò una ricchezza
prima impensabile (ma non per tutte le famiglie nella
stessa misura) e determinò la rottura della rigida
compartimentazione territoriale delle famiglie
generando alleanze tra mafiosi e "uomini
d'affari": tale commistione fu, secondo il
pentito Tommaso Buscetta, una delle cause scatenanti
della guerra di mafia che, tra il 1981 e il 1982, fece
contare un migliaio di casi tra omicidi e scomparsi.
Oggi il traffico di sostanze stupefacenti costituisce
una delle principali fonti di guadagni illeciti per le
organizzazioni criminali di tutto il mondo, ivi
comprese le famiglie mafiose associate a Cosa Nostra
siciliana e gli altri gruppi della criminalità
organizzata italiana. Il mercato illecito che questi
traffici riforniscono è il più grande attualmente
esistente e registra ogni anno un giro d'affari
superiore a quello di numerose industrie lecite e
in misura considerevolmente superiore a ogni
altra industria lecita,
garantisce tassi di profitto assai elevati alla
maggior parte dei suoi operatori. Alla fine del
processo di raffinazione dall'oppio, l'eroina viene
venduta in Pakistan ai trafficanti che ne cureranno
l'esportazione nei mercati finali di consumo a circa
3,3 dollari per grammo. Lo stesso ammontare di
sostanza, però, dopo aver subito numerosi tagli che
decuplicano la quantità originaria, frutta almeno 130
dollari nelle piazze europee, assicurando così ai
suoi commercianti tassi di profitto superiori al 95
per cento. Guadagni analoghi vengono registrati anche
nel caso della cocaina e, in misura parzialmente
minore, dei derivati della cannabis, che assieme agli
oppiacei, costituiscono le principali droghe illecite
di origine naturale.
Il valore aggiunto generato dall'industria dei
narcotici è ben lungi dal essere equamente ripartito
tra i diversi stadi dell'offerta. I contadini che
coltivano il papavero da oppio o la pianta della coca
in Asia o in America Latina ottengono solo le briciole
di questo lucroso commercio. Oltre il 90 per cento dei
profitti derivanti dal traffico di stupefacenti va a
coloro che - come le formazioni della criminalità
organizzata italiana - ne curano l'esportazione dai
paesi di produzione e occupano i gradi più elevati
del sistema di distribuzione nei mercati finali di
consumo
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Rituale
E’
rituale l’insieme prestabilito di gesti e azioni
simboliche che precede l’ingresso di un nuovo membro
all’interno di un gruppo chiuso quando il gruppo in
questione è una setta religiosa, o comunque
un’organizzazione segreta, e serve a rafforzare il
sentimento di coesione e di appartenenza. I nuovi
arrivati sono spinti così ad acconsentire sempre alle
richieste del gruppo.
All’interno del rituale mafioso, la descrizione più
antica del giuramento è quella contenuta in un
documento della questura di Palermo del febbraio 1876,
e vale sostanzialmente per tutte le altre: il padrino
procura all'aspirante una puntura nel dito indice,
macchia con il sangue fuoriuscito un'immagine sacra
che poi viene bruciata "a simboleggiare
l'annichilimento" dell'eventuale traditore
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Pentiti
Già nell'Ottocento tutti i grandi processi di mafia si
basavano su dichiarazioni rese da confidenti
appartenenti all'organizzazione, che tuttavia non
venivano quasi mai presentate in giudizio. Leonardo
Vitale è il primo mafioso dell'epoca repubblicana che
decide di collaborare apertamente con le autorità.
Non verrà creduto, e bisognerà aspettare le
rivelazioni di Giuseppe Di Cristina e soprattutto,
quelle di Tommaso Buscetta perché le conoscenze degli
inquirenti su Cosa Nostra facciano un vero e proprio
salto di qualità.
Sui mafiosi che decidono di collaborare con la
giustizia, in cambio di sconti di pena, libertà,
aiuti economici, vi sono molti equivoci: lo stesso
termine "pentiti" è ambiguo, facendo
riferimento ad una dimensione etica (la sincerità del
rimorso) che non può entrare nella valutazione del
ruolo del singolo collaborante. In realtà senza
l'apporto dei collaboranti le indagini di mafia sono
impossibili: agli inquirenti resta da valutare non
tanto la sincerità del pentimento, quanto la
veridicità delle rivelazioni ed il loro peso. Se dal
punto di vista etico può ripugnare che plurimi
assassini vengano "premiati", dal punto di
vista degli interessi generali della società questo
risulta conveniente, tanto che la legislazione
premiale, cioè l’insieme di leggi che prevedono
“premi” per quegli affiliati alla criminalità
organizzata che si dissociano dalla propria
organizzazione e
che danno agli inquirenti informazioni tali da
impedire nuovi delitti o assicurare alla giustizia i
responsabili di crimini già commessi, rappresenta un
cardine di altri paesi alle prese con criminalità di
stampo mafioso (ad esempio gli USA).
In Italia le leggi premiali sono state introdotte nel
1979 per combattere il terrorismo politico. Con la
legge n. 203 del luglio 1991 la possibilità di sconti
di pena e di aiuti economici è stata espressamente
prevista anche per i responsabili di criminalità
organizzata “comune”, quindi reati di mafia e
simili.
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Massoneria
Per massoneria si intende un'organizzazione, o un insieme
di organizzazioni segrete diffusasi nel Settecento
europeo tra i membri delle classi superiori, che si
consideravano gli elementi illuminati della loro società, legati da uno scopo di vaga
contestazione dell'assolutismo e del potere della
Chiesa cattolica, ispirati da principi laici e
razionalisti. Un complicato simbolismo valeva a
distinguere gli iniziati dai profani. All'inizio
dell'Ottocento la massoneria fungeva da punto di
riferimento per il fiorire di sette
-associazioni clandestine e misteriose- che
intendevano contrapporsi sul piano politico alle
monarchie restaurate dopo la Rivoluzione francese. Si
ritiene che la Carboneria, insieme di gruppi
clandestini liberali e nazionalisti diffusi nel primo
Ottocento in tutta Italia e ancor più nel
Mezzogiorno, rappresentasse l'emanazione politica
della massoneria. A partire dal 1848 prevalsero
raggruppamenti più basati sul consenso e sulla
propaganda palese, che possiamo assimilare ai
moderni partiti politici, e le associazioni di
tipo carbonaro decaddero. Però la massoneria rimase
in voga anche in regimi liberal-democratici. Ancor
oggi ad essa si ispirano associazioni del tutto
lecite, ma anche gruppi che per mantenere un carattere
occulto e misterioso sono stati considerati nemici
della democrazia, o almeno luoghi di trame
affaristiche illecite: è il caso, nell'Italia degli
anni scorsi, della cosiddetta loggia P2. Limitatamente
a questo discorso, si può ben dire che la mafia sia
una specie di massoneria della grande delinquenza.
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Omertà
La più nota delle possibili etimologie della parola omertà
venne fornita negli anni Ottanta dell'Ottocento dal
grande etnologo palermitano Giuseppe Pitré, e a sua
volta si modellava su quella indicata già alla metà
del decennio precedente dal magistrato Giuseppe Di
Menza. Il termine deriverebbe dalla radice omu (uomo),
da cui l'astratto omineita-mortà rifletterebbe una
concezione esasperata, tutta popolaresca e
mediterranea, della virilità, per la quale ognuno è
costretto a vendicare le offese da sé, senza mai far
ricorso, pena il disonore, alla forza pubblica. In
questo senso per Pitré omertà era il concetto chiave
che stava linearmente a chiarire quello di mafia, di
per sé ambiguo o oscuro, "quasi impossibile da
definire" se non magari in negativo: la mafia,
egli scrisse, "non è setta né associazione, non
ha regolamenti né statuti, (...) il mafioso non è
ladro, né
malandrino (...); la mafia è la coscienza del proprio
essere, l'esagerato concetto della propria forza
individuale, (...) donde le insofferenze della
superiorità e, peggio ancora, della prepotenza
altrui".
Siamo alle origini di una costruzione intellettuale
tendente a tutelare l'immagine della Sicilia offesa
dalle (presunte) calunnie e incomprensioni dei
continentali. Di quest'immagine negli anni a venire si
sarebbero appropriati in particolare gli avvocati dei
mafiosi, desiderosi di dimostrare che i loro assistiti
si scontravano per loro privati odi "di
famiglia", che essi erano affetti da
"ipertrofia dell'io" (sic!), che l'omertà
rappresentava un semplice riflesso di tale ipertrofia,
tipica dell'homo sicilianus.
Viceversa già al tempo di Pitré era diffusa l'idea
della mafia come organizzazione settaria,
dall'etnologo - e da tanti altri - rifiutata
sdegnosamente come invenzione dei questurini
continentali. Significativamente negava, Pitré, la
derivazione della parola omertà da umiltà attraverso
la conversione della i in r, tipica del dialetto
siciliano, etimologia indicata da molti, ad esempio da
Giuseppe Alongi, criminologo e funzionario di polizia,
non continentale ma siciliano (1886). Umiltà era
infatti termine usato nel primo Ottocento nelle
organizzazioni delinquenziali (camorristiche) e in
quelle massoniche e carbonare. Nelle organizzazioni
massoniche ottocentesche, anche fuori della Sicilia,
il delatore si diceva infame.
In una delle prime testimonianze sul tema (1864) , dovuta
dal barone Nicolo' Turrisi Colonna, senatore, eminente
leader politico del tempo, ed egli stesso sospetto
quale grande protettore di mafiosi, non troviamo
ancora la parola mafia ma troviamo le parole setta,
infamia, umiltà: "umiltà importa rispetto e
devozione alle sette ed obbligo da qualunque atto che
può' nuocere direttamente o indirettamente agli
affiliati. (...) Chi è vissuto qualche tempo nelle
campagne di Palermo, conosce come spesso si formino
delle grandi riunioni della setta per discutere della
condotta d'un tale affiliato. (...) L'assemblea,
intesi tutti i componenti, decide".
Il termine umiltà-omertà ci porta dunque dentro
l'organizzazione mafiosa.
(Sintesi dalla voce Omertà di Salvatore Lupo
in La Mafia. 150 anni di storia e storie, CD
Rom, ideato e realizzato da Cliomedia Officina, per
Città di Palermo, Mediateca Regionale Toscana,
Regione Toscana, 1999).
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Giuseppe
Pitré
Giuseppe Pitré fu
il fondatore degli studi folclorici in Italia.
Palermitano, si laureò in medicina ma dedicò tutta
la vita alla raccolta e allo studio delle tradizioni
popolari siciliane. Presidente della Società
siciliana di storia patria, e in seguito della Regia
accademia di scienze e lettere di Palermo, fondò il
Museo di Etnografia siciliana che prese il suo nome.
Dal 1910 fu professore all’Università di Palermo,
dove ebbe la cattedra di “demopsicologia” (cioè
“psicologia del popolo”) che era la denominazione
da lui preferita per gli studi folclorici. La sua
opera maggiore è la Biblioteca delle tradizioni popolari: una raccolta monumentale di 25
volumi di canti, giochi, proverbi, medicina popolare
(uscita fra il 1871 e il 1913) che rimane
impareggiabile per ampiezza e precisione.
Alla fine dell’Ottocento, quando si discusse sul
significato originario di alcune parole chiave della
mafia, al fine di nobilitarne i contenuti, Pitré cercò
di dotare di dignità scientifica la derivazione della
parola omertà da "omineità", già
sostenuta dal magistrato Di Menza, quindi legata
all'essere "uomo", e di negarne il legame
con la parola umiltà, del linguaggio dei galeotti.
Pitré sostenne inoltre che il significato
originario della parola mafia fosse "graziosità,
eccellenza nel suo genere" ed in seguito
"coscienza d'esser uomo, sicurtà d'animo... non
mai arroganza". Egli descrisse il mafioso come
persona che voleva essere rispettata e, se offesa, non
ricorreva alla giustizia, perché avrebbe dato prova
della propria debolezza. Secondo lo studioso,
l'immagine della
mafia come delinquenza sarebbe stata diffusa dallo
spettacolo teatrale di Giuseppe Rizzotto I mafiusi
di la Vicaria, rappresentato più volte tra il
1863 e il 1884.
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Carboneria
Sorta
a Napoli all’inizio dell’ Ottocento sotto il
governo di Gioacchino Murat, la Carboneria nacque da
una scissione della massoneria, e ne accentuava molto
gli obiettivi democratici e
antiautoritari. Ebbe una parte fondamentale nel
moto risorgimentale napoletano del 1820, e si diffuse
negli anni Venti e Trenta anche in Francia e Spagna.
Dopo il fallimento del Venti, fu riorganizzata dal
rivoluzionario Filippo Buonarroti, che rappresentava
l’ala più radicale dei movimenti
nazional-patriottici di inizio Ottocento e che si
prefiggeva l’obiettivo dell’eguaglianza giuridica
ed economica di tutti cittadini. Si esaurì alla fine
degli anni Trenta per la morte del Buonarroti e il
successo delle organizzazioni mazziniane, che in
Italia presero sostanzialmente il suo posto.
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Rivoluzione
del 1848
Il 1848 fu un anno di rivoluzioni
in tutta Europa.
A Palermo i moti iniziarono il 12 gennaio 1848 ed
ebbero successo immediato. Si allargarono a tutta la
Sicilia e, contrariamente a Napoli e al resto
d’Italia, furono caratterizzati da una forte
partecipazione popolare, sia in città che nelle
campagne unanime fu la richiesta di autonomia per
l’isola. L’estendersi
delle agitazioni anche nella parte continentale del
regno indusse il re Ferdinando II a concedere, il 10
febbraio, una costituzione molto moderata. Ma con
doppiezza tipica degli esponenti della sua famiglia
(non diversamente si era comportato il suo
predecessore Ferdinando I nel 1820) lo stesso re
realizzò un colpo di stato (15 maggio 1948). Fra
alterne vicende il parlamento autonomo siciliano riuscì
a resistere fino al 15 maggio 1949, quando Palermo fu
occupata dalle truppe borboniche.
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Avvocato
Francesco Gestivo
Nell’ inchiesta sul conto di
Giammona il questore di Palermo, Rastelli, segnalò
alcuni aspetti della sua attività mafiosa,
dall’influenza sul mondo politico (poteva manovrare
una quarantina di voti, quando ne bastavano poche
centinaia per essere eletti al Parlamento), alla
partecipazione a reati di sangue. Francesco Gestivo,
avvocato difensore di Giammona, così presentava
invece le attività del suo cliente:
"Dunque nei dintorni di Palermo
si è formata come una specie di guardia
nazionale, e il Giammona come gli altri proprietari di
giardini, gabellotti e altri che sono nella stessa
condizione si sono associati e sono prevalsi colla
loro unione sino al punto di non fare succedere
delitti, né reati, né scrocchi. E
che ne è successo? E' successo che hanno
riscosso l'odio di coloro che non hanno potuto fare
quello che hanno fatto loro; e quindi le denunce
contro di loro, li han dipinti come persone
facinorose, mafiose, sospette".
Come si vede, si trovano sempre dei difensori dei
mafiosi, disposti a descriverli come normali uomini
d'affari capaci di usare metodi energici pur di
mantenere l’ordine
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Collusi
Un colluso è colui che stipula un accordo segreto con un
altro soggetto, con lo scopo di commettere un illecito
contro una terza persona ingannando la sua buona fede.
Si dice in particolare a proposito di mafia, quando
una persona, che non è parte integrante
dell’organizzazione, stringe però un patto segreto
con essa per ottenere un favore o un vantaggio a danno
di un terzo.
Tipico è il caso degli appalti pubblici, quando un
imprenditore ricerca l’appoggio dei mafiosi per
battere un concorrente.
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Cosa
Nostra
Nel II dopoguerra, mentre si andavano cementando i rapporti
di tipo affaristico e clientelare fra mafiosi,
politici, imprenditori, funzionari pubblici, la mafia
procedette ad una profonda riorganizzazione interna.
Elemento decisivo, in questo periodo più che in
altri, furono i rapporti con alcuni mafiosi
statunitensi. Sia attraverso contatti, sia con
l'attività in Italia di personaggi come Frank
Coppola, legato strettamente al mondo della politica,
Lucky Luciano, Joe Adonis, Frank Garofalo, la mafia
rinnovò le proprie strutture, si dotò di
un'organizzazione più articolata sul territorio, entrò
in relazioni d'affari con le più organizzate famiglie
statunitensi per gestire il traffico degli
stupefacenti. Essenziale, in questa fase, fu la figura
di Luciano, proteso ad evitare conflitti dirompenti
tramite una programmazione manageriale delle attività
mafiose. Ci si avviò verso "Cosa Nostra" (i
mafiosi chiameranno in questo modo la loro
organizzazione, sull'esempio degli americani), una
struttura di governo del territorio e di coordinamento
delle attività mafiose.
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Espansione
edilizia
Tra la fine degli anni Cinquanta
e i primi anni Sessanta la città di Palermo cambia
volto. Da 335.000 abitanti passa, nel giro di sette
anni, a 665.000. L’avanzata del cemento armato
tonifica l’industria edilizia, che assicura salari e
garantisce a costruttori e appaltatori facili
arricchimenti. Su tutti emerge Francesco Vassallo, ex
carrettiere, pregiudicato, protagonista dal dopoguerra
di una fortunata carriera imprenditoriale. “Vassallo
– scrisse Michele Pantaleone (Antimafia occasione
mancata, Torino, 1969) - è il costruttore
fortunato cui riesce facile ottenere ciò che chiede;
è ancora più favorito perché non paga “u pizzu”,
non subisce attentati; i suoi cantieri sono
tranquilli, i suoi impianti, le macchine, il suo
materiale non subiscono danni, mentre tutta la città
è sotto l’incubo degli attentati e vive gli anni
violenti della lotta tra le cosche dell’edilizia,
che fa registrare una media di due omicidi la
settimana”.
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Calogero
Vizzini
Nato
nel 1877, fin da giovane si mise in mostra come uno
dei più potenti gabellotti del palermitano. Venne
inviato al confino dalla polizia fascista nel 1925. Fu
tra i mafiosi che aiutarono le truppe alleate al
momento dello sbarco in Sicilia. Come ricompensa per i
servigi resi, oltre la nomina a colonnello onorario,
diventò primo cittadino di Villalba. Dopo essersi
battuto in un primo momento per le tesi del movimento
separatista e aver appoggiato le scorribande del
bandito Giuliano, contribuì successivamente alla sua
cattura e uccisione. Aderì in seguito alla Democrazia
cristiana. Indiziato di 51 omicidi, morì nel 1954. Al
suo funerale parteciparono diecimila persone.
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Michele
Navarra
Primogenito
di otto figli di una famiglia del ceto medio, Michele
Navarra nacque a Corleone (Palermo) nel 1905: il padre
Giuseppe, piccolo proprietario terriero e membro del
“Circolo dei nobili” del paese, esercitava le
professioni di geometra e maestro della locale scuola
agraria. Terminate le scuole ordinarie, si iscrisse
all’Università di Palermo, prima alla facoltà di
ingegneria e poi a quella di medicina. Ottenuta nel
1929 la laurea in medicina e chirurgia, prestò
servizio militare a Trieste come medico ausiliario.
Tornato a Corleone seppe guadagnarsi come medico
condotto la
benevolenza degli abitanti della zona. Prestigio
professionale, furbizia e apparente bonomia furono le
doti che lo innalzarono a capo indiscusso della locale
famiglia mafiosa, con il soprannome di “u patri
nostro”.
Nel 1943 fu interlocutore credibile degli alleati e ne
approfittò per costituire, con il fratello, una
società di autolinee, funzionante grazie ai mezzi
recuperati nell’isola dal Governo alleato; nel 1947
la società fu rilevata dalla Regione Sicilia e quindi
assorbita nell’Azienda Siciliana Trasporti.
In politica Navarra appoggiò inizialmente le istanze
indipendentiste, poi fece confluire i voti controllati
dalla mafia locale prima sul Partito liberale poi
sulla Dc. Tra il 1946 e il 1948 divenne anche la
massima autorità sanitaria della sua zona, medico
fiduciario dell’Inam e primario dell’ospedale di
Corleone, poltrona così ambita da spingerlo a
commissionare l’uccisione del legittimo titolare.
Negli stessi anni si impegnò per controllare le pretese dei contadini e assicurare
l’amministrazione dei feudi del corleonese ai suoi
uomini. Arrestato nell’ambito dell’inchiesta su
due efferati omicidi, quello del sindacalista Placido
Rizzotto e di Giuseppe Letizia, il tredicenne che del
primo delitto era stato testimone e che morì in
seguito a un’iniezione praticatagli dallo stesso
Navarra, il capomafia, grazie alle forti protezioni
politiche, non fu mai condannato e poté rientrare
a Corleone nel 1949, dopo pochi mesi di
confino. Raggiunse l’apice del successo favorendo
l’elezione dell’avvocato Alberto Gensardi, genero
di Vanni Sacco, potente capo mafia di Camporeale, alla
guida del consorzio agrario per la bonifica
dell’alto e e medio Belice. Con quella nomina la
mafia ribadì la sua contrarietà alla realizzazione
di una diga sul fiume Belice, che avrebbe significato
la fine del suo controllo sull’erogazione
dell’acqua nell’agro palermitano, trapanese e
agrigentino.
Il primato di Navarra durò fin quando non gli sbarrò
la strada Luciano
Liggio. Navarra, che lo aveva avuto tra i suoi
picciotti, ne intuì le terribili potenzialità e ne
ordinò l’uccisione. Liggio però scampò
all’attentato e si prese la rivincita: il 2 agosto
1958 Navarra fu trucidato da Liggio e i suoi mentre
rientrava in auto a Corleone con un amico.
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Luciano
Liggio
Nato a Corleone nel 1925,
successe a Michele Navarra, guidando i corleonesi
all’assalto della città di Palermo in aperta sfida
al predominio delle altre famiglie di Cosa Nostra.
Oltre alla conquista dei mercati illegali, si arricchì
con l’edilizia, pubblica e privata, facendo leva sul
rapporto preferenziale con Vito Ciancimino, assessore
e sindaco della città negli anni del sacco edilizio.
Deciso e spietato, non esitò mai a eliminare
i tanti ostacoli che gli si pararono dinnanzi,
dal sindacalista Placido Rizzotto (1948) al capomafia
Michele Navarra (1958). Arrestato una prima volta nel
1964, fu assolto per insufficienza di prove nei
processi di Catanzaro (1968) e di Bari (1969).
Nel 1971 uccise il procuratore capo di Palermo
Pietro Scaglione. Fu poi latitante nel nord Italia,
dove portò a termine numerosi sequestri di persona,
tra cui quelli di Luigi Rossi di Montelera e di
Paul Getty III. Arrestato a Milano nel 1974,
non tornò più in libertà. Morì colpito da infarto
nel 1993, nel carcere di Badu ‘e Carros, in
Sardegna.
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Salvatore
Riina
Originario di Corleone (1930), a diciannove anni
uccise un coetaneo in una rissa. Scontati sei anni di
carcere ritornò al paese, diventando luogotenente di
Luciano Liggio. Arrestato nel 1963, dopo alcuni anni
di reclusione all’Ucciardone fu assolto prima nel
processo di Catanzaro (1968), poi in quello di Bari
(1969). Inviato al soggiorno obbligato, si diede alla
latitanza: prendendo il posto di Liggio quando questi
finì in carcere, condusse i corleonesi negli anni
Ottanta e Novanta alla realizzazione di immensi
profitti, prima con il contrabbando poi con la droga e
gli appalti pubblici. Oltre a realizzare il predominio
all’interno di cosa nostra, Riina, denominato “Totò
u curtu” lanciò anche una pesante sfida allo Stato,
eliminando numerosi rappresentanti della magistratura,
delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Dopo 23
anni di latitanza, trascorsi in assoluta libertà e
per lo più a Palermo, fu arrestato dai carabinieri il
15 gennaio 1993. Gli sono stati attribuiti tutti gli
omicidi eccellenti decisi da Cosa Nostra negli ultimi
decenni, comprese le stragi in cui persero la vita i
magistrati Falcone e Borsellino.
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Delitto
Notarbartolo
Di nobile famiglia, Emanuele Notarbartolo fu sindaco di
Palermo dal 1873 al 1876. Esponente della Destra,
aveva però saputo farsi apprezzare per la sua
equanimità, dimostrando di sapersi tenere lontano
dalle lotte più faziose. Fu successivamente nominato
direttore del Banco di Sicilia dal 1876 al 1890.
Durante tutti i suoi incarichi si segnalò per rigore
morale e per le capacità di buon amministratore.
Notarbartolo fu assassinato in treno tra Termini
Imerese e Palermo la sera del 1 febbraio 1893. Si
sospettò subito che mandante dell'omicidio fosse il
deputato Raffaele Palizzolo che, come membro del
consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia, si
era ripetutamente scontrato con lui e ne osteggiava il
probabile ritorno alla direzione dell'istituto di
credito. Notarbartolo, infatti, aveva sempre
ostacolato le spregiudicate operazioni finanziarie che
il deputato aveva tentato di attuare. Palizzolo,
appartenente, come Notarbartolo, all'area della
Destra, aveva pessima reputazione: protettore di
mafiosi e banditi, godeva non di meno di eccellenti
relazioni con magistrati e poliziotti e di notevole
influenza politica. Notarbartolo sospettava
fondatamente che fosse lui il mandante del suo
sequestro, avvenuto nel 1882. Nonostante i numerosi
indizi sugli
esecutori materiali dell'omicidio, tutti collegati a
Palizzolo, le indagini furono ostacolate: grazie alle
molteplici protezioni di cui godeva il sospetto, il
caso fu insabbiato per lunghi anni.
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Abigeato
Il furto di bestiame era un reato tipico delle zone
ad alta concentrazione mafiosa per la vasta rete di
complicità e di omertà che richiedeva. In genere le
bestie erano trascinate via dai recinti e
spinte a molti chilometri di distanza, di
solito in un villaggio diverso da quello di origine. Là
una parte veniva macellata e venduta clandestinamente,
mentre per la restituzione dell’altra parte veniva
chiesta al proprietario una somma in denaro. Nella
realizzazione di un abigeato venivano dunque coinvolti
i guardiani dei campi del proprietario e dei terreni
sui quali le bestie transitavano, il macellaio e i
suoi compaesani che compravano la carne in “nero”.
Nella maggior parte dei casi, infine, il
proprietario accettava di pagare per la restituzione
di una parte dei capi, rimanendo anche lui coinvolto
nella spirale del silenzio.
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Lotte
contadine
Subito
dopo la guerra ripresero
con grande forza, soprattutto nel Sud, le agitazioni
contadine, con un movimento analogo
a quello che si era manifestato dopo la prima
guerra mondiale. Come in precedenza, il sistema di
lotta più usato fu l’occupazione di terre incolte e
la loro coltivazione, con la successiva rivendicazione
dei frutti del lavoro e della terra stessa.
Lo stato rispose al movimento in maniera duplice, da
una parte vi furono repressioni anche molto dure, con
morti e feriti; dall’altra anche la Dc, saldamente
insediatasi dal 1948 alla guida del governo, si rese
conto che la questione agraria doveva necessariamente
essere affrontata a causa dell’arretratezza
spaventosa dei rapporti agrari in certe zone del
paese. Nel 1950 fu quindi varata una parziale riforma
agraria, con la “legge Sila” e la “legge
stralcio”.
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Famiglia
Greco
Capo della famiglia Greco fu
Michele, detto “il papa”, nato a Palermo nel 1924,
alla guida della cosca di Ciaculli e nel 1978 capo
della “commissione” di Cosa Nostra. Alleato dei
corleonesi, fu insieme al fratello Salvatore, il
mandante dell’omicidio del giudice istruttore Rocco
Chinnici.
Amava frequentare i salotti bene di Palermo e
la sua tenuta di Ciaculli era visitata da
politici, banchieri, professionisti e aristocratici
decaduti che vi si recavano per banchetti o battute di
caccia. Nella stessa tenuta furono ricavati rifugi
sicuri per mafiosi latitanti
e anche una raffineria di eroina.
Altri esponenti della famiglia e quasi suoi coetanei,
furono Salvatore Greco, fratello di Michele, chiamato
“senatore” per la sua frequentazione degli
ambienti politici siciliani; Salvatore Greco, cugino
del “papa”, dedito al traffico internazionale di
tabacchi e stupefacenti; Totò Greco, un altro cugino,
soprannominato “l’ingegnere”, amico dei più
potenti boss italo–americani.
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Nascita
della regione a statuto speciale
La
Sicilia è una delle cinque regioni a statuto
speciale, come sancito dalla Costituzione del 1948
(art. 116). In realtà la nascita della Regione
precedette l’entrata in vigore della Costituzione. Il principio dell’autonomia regionale siciliana entrò
nella fase di preparazione giuridica nel settembre
1945. Il progetto venne affidato a una Commissione
paritaria nominata dall’Alto Commissariato per la
Sicilia e composta da rappresentanti di tutti i
partiti. La bozza di statuto elaborata dalla
Commissione fu sostanzialmente accolta dalla Consulta
regionale siciliana: venne ribadita la competenza
esclusiva alla regione di alcuni tributi riscossi
nell’isola; la durata della legislazione fu definita
in quattro anni. Si prevedeva inoltre con l’art. 38
la costituzione di un fondo di solidarietà nazionale
in cui lo stato avrebbe versato finanziamenti da
utilizzare per lavori pubblici.
L’aspetto rivoluzionario del progetto approvato
dalla Consulta era quello di concepire la Sicilia
quale entità politica primaria, dotata di competenze
proprie pur rimanendo all’interno dei confini dello
Stato unitario. Lo Statuto, promulgato con il decreto
legislativo luogotenenziale del 15 maggio 1946, fu poi
esteso anche alla Sardegna. L’anno successivo, il 20
maggio 1947, si tennero le prime elezioni
dell’Assemblea regionale siciliana.
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Tommaso
Buscetta
Nato a Palermo nel 1928, entrò nella mafia a
vent’anni. Arrestato per la prima volta per
contrabbando di sigarette nel 1956, all’inizio degli
anni Sessanta, quando in Sicilia divampava la prima
guerra di mafia, si rifugiò in Messico. Nello stesso
periodo su di lui venne spiccato un mandato di cattura
per associazione a delinquere e omicidio plurimo.
La sua carriera criminale si svolse tra Europa e Sud
America, soprattutto nel contrabbando di tabacchi e
droga. Processato in contumacia a Catanzaro (1968), fu
arrestato nel 1970 negli Usa e nel 1971 si trasferì
in Brasile. Nello stesso anno la Commissione antimafia
lo inserì nella lista dei dieci mafiosi più
pericolosi. Nel 1977 fu estradato dal Brasile, ma dopo
un breve periodo di carcere, grazie al regime di
semilibertà, fu di nuovo un latitante.
All’inizio degli anni Ottanta tornò in Italia,
nell’inutile tentativo di tentare una conciliazione
tra le vecchie famiglie palermitane e i rampanti
corleonesi. Fu nuovamente arrestato nel 1983 in
Brasile ed estradato in Italia nel 1984. Iniziò da
allora a collaborare con il giudice
Falcone, che emise, in base alle sue
rivelazioni, ben 366 mandati di cattura.
Fu Buscetta a svelare per primo e in maniera
compiuta al giudice i segreti di Cosa Nostra, offrendo
le chiavi di lettura necessarie per interpretare
l’organizzazione, gli organigrammi, le attività e
gli appoggi della mafia. Dopo la strage di Capaci, a
partire dal 1993, rilasciò nuove dichiarazioni sui
rapporti tra mafia e politica e sui delitti Moro,
Pecorelli, Dalla Chiesa.
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Benedetto
(Nitto) Santapaola
Nato a Catania (1938) da famiglia di modeste
condizioni, venditore ambulante, poi titolare di una
concessionaria di auto, Nitto, soprannominato “il
cacciatore”, è stato uno dei capi mafia più
potenti e sanguinari della Sicilia orientale.
Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta
ha scalato i vertici di Cosa Nostra, prima eliminando
Giuseppe Calderone, il capo mafia più influente di
Catania (1978), poi commissionando ai corleonesi la
strage della Circonvallazione, nella quale il suo
rivale, Alfio Ferlito, fu ucciso insieme ai
carabinieri che lo scortavano in carcere (1982).
Fondamentale fu il patto di ferro con Totò Riina, per
ricambiare il quale Santapaola organizzò l’omicidio
di Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo.
Latitante dal 1982, fu catturato nel 1993 in una
masseria di Lazzarone, fra Catania e Ragusa: in
seguito alle rivelazioni dei collaboratori di
giustizia, primo fra tutti Antonino Calderone,
fratello di Giuseppe, sono emerse le commistioni tra
“il cacciatore” e il “comitato d’affari”,
composto da politici, imprenditori e anche magistrati
corrotti, che ha controllato Catania negli anni
Ottanta. Nel 1997 Santapaola è stato condannato
all’ergastolo anche per la strage di Capaci.
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Camorra
Nella Napoli dell'Ottocento la camorra era anzitutto
un'attività delinquenziale rivolta specificamente
all'estorsione, con un radicamento e caratteristiche
urbane. Sul piano sociale coinvolgeva ceti plebei e
sottoproletari, separati e marginali rispetto alle
classi dominanti, per le quali svolgevano
saltuariamente funzioni subalterne di mediazione
clientelare e di intimidazione.
I camorristi erano molto diffusi tra i facchini,
collocati nei luoghi centrali dell'estorsione, dove si
svolgevano tutte le relazioni di mercato; e poi tra i
cocchieri, negli ambienti della prostituzione
e del gioco d'azzardo. Si autorappresentavano
come una sorta di aristocrazia della plebe che
tutelava l'ordine e la giustizia nella carenza dello
Stato. I caselli del dazio a Napoli vedevano spesso la
compresenza dell'ufficiale governativo e del
camorrista.
Il carattere plebeo di questa associazione criminale
si modifico dall'ultimo quarto del XIX secolo, quando
l'allargamento del suffragio e del ceto politico e
amministrativo accrebbe le occasioni di scambio tra la
politica e la camorra. Accanto al camorrista plebeo
comparve sempre più spesso il guappo di
“sciammeria”, borghese o imborghesito.
Nel Novecento l'industrializzazione, l'organizzazione
del movimento operaio, l'emigrazione, circoscrissero
spazio e prospettive di un fenomeno criminale posto ai
margini delle trasformazioni sociali. Il carattere
prettamente urbano della camorra andò attenuandosi
per la diffusione, nelle campagne della Campania, di
forme di criminalità legate alla commercializzazione
dei prodotti agricoli. A differenza del mafioso, che
si poneva tra rendita fondiaria e contadini,
l'intermediario di stampo camorristico svolgeva le sue
funzioni di mediazione tra il contadino e il mercato,
caratterizzandosi come agente improprio di un
capitalismo mercantile, poco e male sviluppato in un
paesaggio agrario tanto ricco e intensivo quanto
fortemente spezzettato nel possesso.
Negli anni Sessanta, con la centralità assunta dal
porto di Napoli nel contrabbando di sigarette si avviò
la formazione di una criminalità organizzata moderna,
che si alleò con la mafia siciliana contro i
marsigliesi, ristrutturandosi secondo il modello
mafioso. Questa alleanza fu favorita dal soggiorno
obbligato stranamente imposto nel Napoletano ai
capimafia Bontade e Spadaro e dalla latitanza da
queste parti di Luciano Liggio e di Gerlando Alberti.
Maturò così l'affiliazione a Cosa Nostra dei clan
camorristici Zaza, Nuvoletta, Bardellino e
l’inserimento della criminalità organizzata
napoletana e campana nei circuiti internazionali dei
traffici illeciti controllati da Cosa Nostra.
A metà anni '70, con la crisi del contrabbando di
sigarette, intorno a cui si era sviluppato a Napoli un
sistema che coinvolgeva nelle diverse attività circa
60 mila persone, si accelerò lo spostamento verso il
traffico della droga, gestito dalla criminalità
napoletana in stretta alleanza con la mafia siciliana.
Fu da questo
momento che il fenomeno camorristico, nelle sue
trasformazioni, tornò dopo molto tempo all'attenzione
nazionale.
Centrale diventò il ruolo di Raffaele Cutolo, impegnato, con la “Nuova camorra
organizzata”, nell’ ambizioso tentativo di
spazzare via dalla Campania il dominio di Cosa Nostra.
Cutolo tentò di unificare in una sola organizzazione
tutte le forme criminali presenti in Campania: dallo
scippo all'estorsione, dal tabacco alla droga, agli
appalti pubblici. Tutta l'area della vastissima
emarginazione giovanile fu da lui
coinvolta in un progetto di associazione
criminale di massa, che riassunse la denominazione
camorristica per fissare anche nei simboli la rottura
con la mafia siciliana.
Il terremoto del 1980 consentì alle diverse fazioni
camorristiche di espandere la loro potenza economica,
grazie all'immediato inserimento nella distribuzione
dei cospicui appalti pubblici: dalla rimozione delle
macerie e dalla installazione dei primi prefabbricati
alle costose e spesso inutili opere della decennale
ricostruzione. Prese anche l’avvio una guerra tra i
clan della Campania che, in cinque anni, fece segnare
un migliaio di morti.
Furono infine i clan Alfieri e Calasso a raccogliere
gran parte dell'eredità cutoliana: alleanze coi clan
dell'intera Campania, rapporti di scambio coi politici
nazionali e locali, relazioni di affari con le imprese
edili. Per quasi un decennio essi dominarono
l'intreccio criminalità - affari - politica in
Campania. La Commissione antimafia, a fine '93, definì
questo processo di integrazione come un vero e proprio
"blocco politico- camorrista negli enti
locali".
Le inchieste giudiziarie - grazie alle testimonianze
degli stessi protagonisti politici, economici e
criminali di queste imprese – hanno colpito dal
'93-'94 il cuore di questo sistema. Ma non potranno,
da sole, dissolverlo e impedirne la riproduzione in
forme diverse. La relazione preparata nel giugno '97
dalla Procura della Repubblica di Napoli per la
Commissione parlamentare antimafia ribadisce il
perpetuarsi di una drammatica situazione di profondo
inquinamento criminale sia della società che delle
istituzioni. Non vi è zona del territorio che non sia
sottoposta ad intensa pressione camorristica. Più
spesso, è la camorra a governare, esercitando
un'asfissiante influenza sulle amministrazioni locali
e sulle attività d'impresa, oltre il tradizionale
quanto diffuso controllo di ogni mercato illegale.
(Sintesi dalla voce Camorra di Francesco
Barbagallo in La Mafia. 150 anni di storia e storie,
CD Rom, ideato e realizzato da Cliomedia Officina, per
Città di Palermo, Mediateca Regionale Toscana,
Regione Toscana, 1999).
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‘Ndrangheta
Malgrado oltre un secolo di storia che ne documenta lo
straordinario radicamento in Calabria e nonostante la
scoperta di stabili succursali impiantate in almeno
quattro continenti, la 'Ndrangheta rimane il fenomeno
più sottovalutato dello scenario criminale italiano.
E anche quello ancora meno indagato, più impunito e
quindi più insidioso.
Spesso confusa (anche dalla letteratura e dal cinema)
con retaggi del brigantaggio post-unitario,
ritenuta meno pericolosa rispetto alla camorra
e soprattutto rispetto alla mafia siciliana) la
'Ndrangheta è stata sempre collocata in un contesto
arcaico, relegata in orizzonti contadino-pastorali,
confinata in una società arretrata, sottosviluppata.
Non a tutti, però, anche fuori dalla Calabria, è
sfuggita la consapevolezza della sua pericolosità.
Giovanni Falcone segnalava che la 'ndrangheta è
caratterizzata da modelli di comportamento
relativamente arcaici, senza per questo essere meno
pericolosa delle altre forme di criminalità
organizzata, con cui condivide le caratteristiche
essenziali, come il controllo del territorio,
l'influenza sugli organi amministrativi locali,
l'estorsione di denaro a danno delle imprese e
l'organizzazione del traffico di droga.
La 'Ndrangheta ha una struttura marcatamente
orizzontale: le cosche
(chiamate 'ndrine o locali) ciascuna delle
quali ha giurisdizione su un territorio determinato
che in genere corrisponde a quello di un singolo
comune o a parte di esso nel caso
di centri importanti o città. Nei loro
ambiti territoriali le cosche sono sovrane: non
esiste in Calabria un capo unico, un padrino dei
padrini e mancano pure sia una direzione unitaria che
organismi sovraordinati alle cosche. Questo non
significa che i collegamenti siano inesistenti o
casuali e sfilacciati. Al contrario sono fitti,
rapidissimi e funzionali, vertendo su singole
questioni o sulla necessità di stabilire alleanze nei
frequenti, inevitabili, conflitti con altri gruppi
criminali.
Cuore e perno fondamentale della 'Ndrangheta è la
famiglia naturale e tutto l'ambito parentale facente
capo agli esponenti di maggior spicco criminale
dell'organizzazione. Se per la mafia siciliana è il
paese o il quartiere cittadino di appartenenza a
designare e qualificare il legame e la pertinenza
dell'affiliato a una cosca, in Calabria prevale invece
decisamente l'indicazione del cognome della famiglia
(o del gruppo di famiglie alleate) più importante
alla quale un affiliato appartiene per legami di
sangue oppure di parentela, naturale o artificiale
(pensiamo alle reti di comparaggi che si ramificano
attraverso la celebrazione di battesimi, cresime e
matrimoni).
Sono le famiglie mafiose in prima persona, e non le
organizzazioni territoriali, a svolgere direttamente
le attività criminali, a uccidere, estorcere, rapire,
a rapinare, gestire traffici internazionali di armi e
droga, ad accumulare ingenti risorse economiche e a
riciclarle, a corrompere apparati pubblici e a
stringere patti scellerati con altri gruppi criminali
o con altri poteri palesi e occulti
e con servizi segreti più o meno deviati.
La flessibilità e duttilità nella strutturazione
corrisponde nella 'Ndrangheta a un'estrema rigidità
nelle regole associative, ferree ed inderogabili. La
mafia calabrese è diventata una formidabile élite
criminale capillarmente diffusa nella regione
d'origine e dotata di una sua vasta ragnatela
internazionale grazie all'adozione di un codice
normativo valido sia all'interno dell'organizzazione,
nella quale ogni tradimento è stato e viene sempre
immancabilmente punito con la morte, sia all'esterno,
attraverso l'uso della intimidazione sistematica
fino alla ferocia più estrema
nei confronti delle vittime e di eventuali
testimoni od ostacoli istituzionali. E' tradizione
della 'Ndrangheta l'esercizio della violenza più
efferata, con efficienza e prevedibilità. In molte
aree della regione, a confronto con uno Stato distante
e distratto ha prevalso il potere più vicino della
'Ndrangheta, sia in termini di rapporti di forza sia
di modelli culturali, diventando così dominante e
acquisendo persino ampi margini di (ambiguo) consenso
popolare in quanto autorità in grado di regolare
conflitti, reprimere e controllare
la microcriminalità e condizionare le ataviche
rivalità tra gruppi familiari (le cosiddette
"faide", catene di delitti che si
tramandano, vendetta dietro vendetta, di generazione
in generazione).
L'adesione alla 'Ndrangheta è tradizionalmente
riservata: bisogna essere maschi e calabresi. Regola
antica, che come tutte le regole registra evoluzioni e
ammette eccezioni. Le cronache e gli atti giudiziari
segnalano già parecchi casi di ingresso di mafiosi
campani e pugliesi e
la doppia affiliazione di esponenti siciliani.
Anche il maschilismo più codificato non costituisce
una barriera invalicabile: oltre ai tradizionali ruoli
di fiancheggiatrici e di pedine sottomesse delle
"strategie matrimoniali" e accanto a un
sempre maggiore coinvolgimento delle donne (madri,
mogli, figlie e sorelle di 'ndranghetisti) nella
gestione di affari criminali e di imprese
"pulite", si verificano anche casi di
complicità sempre più pregnanti e addirittura di
affiliazioni femminili in piena regola.
Statuti, formule secolari e antichi comportamenti
convivono nella 'Ndrangheta con strumenti e moduli
operativi criminali efficientissimi, d'avanguardia. E'
il caso dei sequestri di persona a scopo d'estorsione,
un reato che ha fatto registrare quasi un monopolio
della 'Ndrangheta: più che di eredità del
brigantaggio, si tratta di un'attività legata a
esigenze di controllo e sfruttamento (di
"signoria" piena) sul territorio ma anche
all'esercizio di una sorta di intimidazione permanente
e preventiva nei confronti dei ceti impreditoriali
locali, sottoposti in tal modo alla minaccia di cadere
vittime dei sequestri e come tali facilmente piegabili
alla pressione estorsiva.
(Sintesi dalla voce ‘Ndrangheta
di Gianfranco Manfredi, in La Mafia. 150 anni
di storia e storie, CD Rom, ideato e realizzato da
Cliomedia Officina, per Città di Palermo, Mediateca
Regionale Toscana, Regione Toscana, 1999).
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Il
caso Sindona
Avvocato siciliano, originario di Patti,
instaurò rapporti con
esponenti mafiosi e con i servizi segreti
americani fin dal termine della seconda guerra
mondiale, e realizzò, nel corso degli anni Cinquanta
e Sessanta, anche grazie alle relazioni d'affari con
la curia vaticana, l'Istituto per le Opere di
Religione (Ior) una rapida e trionfale affermazione
nel panorama finanziario internazionale.
L’inquietante scenario di oscuri interessi ed
attività criminose, sviluppatesi prima all'ombra di
Cosa Nostra e della loggia massonica P2, prosperate
poi grazie alle connivenze politiche di cui egli fu al
centro, cominciò a delinearsi negli anni ’70 quando
Sindona conobbe
l’onta del fallimento, causato dalle stesse
vorticose operazioni speculative che lo avevano
proiettato ai vertici della finanza internazionale.
Travolto da una serie di bancarotte, a cominciare da
quella della Banca Privata Italiana, finì
definitivamente in carcere negli Usa nel 1979,
colpito da sessantanove capi d'accusa e fu
condannato l’anno seguente a tre pene detentive di
venticinque anni e a una di ventiquattro.
In Italia, nel maggio 1980, venne costituita una
commissione parlamentare d'inchiesta sul suo caso. Nel
luglio 1981 dalla procura della repubblica di Milano
partì la formale incriminazione per l'omicidio
dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, il commissario
liquidatore della Banca Privata Italiana, resosi
"colpevole" agli occhi del finanziere
siciliano di non aver ceduto ai tentativi di
corruzione e alle pesanti intimidazioni.
Il 17 marzo 1981, indagando su di lui, la guardia di
finanza trovò gli elenchi della loggia massonica
Propaganda Due, o loggia P2, in cui erano contenuti
molti ed importanti nominativi dell'establishment
italiano: tre ministri, due ex ministri, un segretario
di partito governativo, trentotto deputati, undici
questori, cinque prefetti, cinquantadue ufficiali dei
carabinieri, trentasette della guardia di finanza,
cinquanta dell'esercito, ventinove della marina,
quattordici magistrati, dieci presidenti di banca,
avvocati, giornalisti e imprenditori. Scoppiò uno
scandalo che fece tremare i palazzi romani: oltre ai
rapporti con mafia e servizi segreti e al
coinvolgimento della loggia in alcune delle vicende
politiche ed economiche più delicate degli ultimi
anni, i magistrati scoprirono il "Piano di
rinascita democratica", un vero e proprio
progetto politico teso al cambiamento eversivo delle
strutture democratiche del nostro paese.
Nel gennaio 1982, Sindona fu incriminato da Giovanni
Falcone per traffico di valuta in connessione con il
commercio di stupefacenti organizzato dalla famiglie
Gambino, Spatola, Inzerillo: questo procedimento
inaugurò la stagione dei processi istruiti da
magistrati che poi avrebbero fatto parte del pool
antimafia dell'ufficio istruzione del tribunale di
Palermo. L'incriminazione fu in seguito revocata per
mancanza di riscontri relativi alla partecipazione al
traffico di stupefacenti mentre fu confermata la
comunanza di rapporti con la mafia.
Nello stesso anno si chiuse anche la vicenda umana e
professionale di Roberto Calvi, piduista, custode, al
pari di Sindona, di ingombranti segreti. Finito in
carcere per il fallimento del Banco Ambrosiano,
depauperato di circa mille miliardi di lire dalle
fughe di capitali all'estero, il banchiere fu
condannato a quattro anni.
In giugno Calvi tornò libero e prima dell'appello
fuggì dall'Italia, con l'aiuto del faccendiere
piduista Flavio Carboni. La sua disperata corsa terminò
a Londra sotto il Blackfriars Bridge, dove fu trovato
impiccato il 18 giugno. Anche per lui si parlò di
suicidio, ma le troppe anomalie che emersero dalle
indagini trovarono conferma nelle dichiarazioni di
collaboratori di giustizia Francesco Marino Mannoia e
Tommaso Buscetta,
che rivelarono come il banchiere venne ucciso
per ordine della cupola mafiosa, che lo giudicò
responsabile della perdita di alcune decine di
miliardi a lui affidate.
Il 25 settembre 1984 Sindona fu estradato dagli Stati
Uniti in Italia per presenziare all'inizio del
processo per il crack della Banca Privata Italiana,
che si chiuse nel marzo del 1985 con una condanna a
quindici anni di reclusione.
Il 18 marzo del 1986 la Corte d'assise di Milano
condannò Sindona all'ergastolo come mandante
dell'omicidio Ambrosoli.
La mattina del 20 marzo Sindona morì nel carcere di
Voghera, avvelenato da un caffè al cianuro.
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Le stragi di Capaci e di via d’Amelio
Il 23 maggio 1992 a Capaci, sull'autostrada Punta
Raisi-Palermo imbottita di esplosivo, Cosa Nostra
regolò definitivamente i conti col magistrato che più
aveva contribuito ad infliggerle gravi colpi: persero
la vita Giovanni Falcone, la
moglie Francesca Morvillo e gli
agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Di
Cillo e Vito Schifani. Fu un'azione terroristica che
tuttavia segnalava un grave momento di debolezza di
Cosa Nostra: se ancora i capi erano latitanti, il
cerchio protettivo che aveva garantito per decenni la
loro impunità stava per spezzarsi. Il 17 febbraio
1992, con l'arresto di un oscuro burocrate milanese,
il socialista Mario Chiesa, era cominciata
"Tangentopoli"; alle elezioni politiche del
5 aprile i partiti governativi avevano avuto un
clamoroso tracollo, e la Lega lombarda era diventata
il primo partito del Nord, il presidente della
repubblica Francesco Cossiga si era dimesso e
l'elezione del nuovo presidente divideva i partiti, il
quadro politico era in movimento, nessuno poteva più
garantire vecchie alleanze e protezioni.
Enorme fu l'impatto emotivo: fu proclamata una
giornata di lutto e lo sciopero generale in Sicilia,
ai funerali decine di migliaia di cittadini
manifestarono la loro indignazione contro la mafia e i
politici, accusati di corruzione e complicità. Il
funzionario che nella sua vita recente aveva
conosciuto grandi amarezze e ostilità, e ciò
nonostante aveva continuato a svolgere il suo dovere,
venne improvvisamente esaltato anche da chi l'aveva
fino ad allora ostacolato o calunniato.
Pochi mesi dopo il 19 luglio 1992 andò in onda la
cronaca di un’altra morte annunciata:. il giudice
Paolo Borsellino, dal dicembre 1991 tornato a Palermo
come procuratore aggiunto, predestinato dall'opinione
pubblica ma anche da incaute affermazioni di uomini di
governo che lo indicavano come l'erede di Falcone,
venne ucciso davanti all'abitazione della madre in via
d'Amelio a Palermo da un'autobomba, con i cinque
agenti della scorta, Agostino Catalano, Vincenzo Li
Muli, Walter Cusina, Claudio Traina ed Emanuela Loi.
Seguì la scena tragica dei funerali degli agenti di
scorta (la famiglia Borsellino rifiutò i funerali di
Stato), dai quali incredibilmente si tentò di tenere
lontani proprio i palermitani, per paura del ripetersi
di quelle contestazioni alle autorità che si erano
manifestate ai funerali di Falcone. Sembrava che Cosa
Nostra avesse vinto: è tutto finito, aveva commentato
piangendo in un momento di scoramento (subito dopo
superato) l'anziano giudice Antonino Caponnetto, padre
putativo di Falcone e Borsellino. Ma, in un
soprassalto di attivismo, seguì
l'operazione "Vespri siciliani" (lo
sbarco in Sicilia dei soldati inviati a presidiare
militarmente un territorio occupato dalla mafia),
l'approvazione del programma di protezione dei
collaboranti di giustizia, l'invio dei boss detenuti
nelle carceri di massima sicurezza e la definizione di
un regime carcerario particolare (art. 41 bis
ordinamento penitenziario), la rimozione dei
funzionari inetti (a dirigere la procura di Palermo fu
mandato il magistrato torinese Giancarlo Caselli,
mentre Gianni De Gennaro, già collaboratore di
Falcone, andò a dirigere la Direzione Investigativa
Antimafia), la cattura dei primi latitanti, a
dimostrazione che, se esiste una volontà politica, è
possibile ottenere successi anche nell’attività investigativa.
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