La svolta degli anni
Cinquanta
Dopo la seconda guerra mondiale, il fitto
rapporto tra la sponda americana e quella siciliana,
fatto di traffici illeciti e di continui spostamenti
di esponenti mafiosi dall'una all'altra parte, ha
giocato come un potente fattore di rinnovamento della
mafia, simbolicamente espresso dalla comparsa di un
nuovo nome, forse di origine americana: Cosa
Nostra.
Secondo un’ opinione diffusa proprio negli
anni '50, la mafia ha trasferito
i suoi interessi dalla campagna alla città,
mutando radicalmente di funzioni e trasformandosi, da
apparato legato al vecchio latifondo
in associazione criminale in grado di organizzare il sacco edilizio
di Palermo e a lanciarsi nel grande
affare internazionale degli stupefacenti.
Questa evoluzione viene spesso personificata
attraverso la vicenda di alcuni capi-mafia: Calogero
Vizzini, gabellotto, sindaco e mafioso
tradizionale della provincia di Caltanissetta tra gli
anni '20 e l'inizio degli anni '50; Michele
Navarra, medico, notabile e capo-cosca
corleonese degli anni '50; Luciano
Liggio, anch'egli corleonese, un killer
che dopo aver spostato i propri interessi verso la
"capitale", Palermo, assunse all'inizio
degli anni '70 la guida di Cosa
Nostra siciliana. Salvatore
Riina fu collaboratore di Liggio, e gli
succedette dopo il suo arresto, rimanendo a capo della
mafia sino a tempi recentissimi, fin quando anch'egli
è stato catturato.
La vicenda è stata interpretata secondo uno
schema “evoluzionistico”, che pretendeva di
dedurre l'evoluzione della mafia dall'evoluzione
generale della società. D'altronde il fenomeno della
mafia, sin dal suo apparire, alla metà del secolo XIX,
è stato sempre interpretato come metafora
dell'arretratezza più estrema. Molti hanno pensato
che con la modernizzazione esso fosse destinato a
scomparire o a cambiare sino a divenire
irriconoscibile. Visto che l'avvento del moderno,
nell'Italia meridionale come un po' dappertutto nel
mondo, non ha portato all'estinzione delle mafie, ma
casomai al loro rafforzamento, forse bisognerà
riconsiderare diversamente la vicenda.
Innanzitutto, considerando il fenomeno a
partire dall'Unità d'Italia, alla mafia del latifondo
va affiancata la mafia "delle zolfare" e
quella "dei giardini", gli agrumeti
circostanti Palermo. Fu proprio quest'ultima a dar
luogo nel corso dell'Ottocento ai delitti e ai
processi più noti, come il già citato caso Giammona
o l'assassinio dell'ex-direttore del Banco di Sicilia,
già sindaco di Palermo, Emanuele
Notarbartolo. La mafia dei giardini
egemonizzava la custodia dei terreni, il controllo dei
flussi mercantili leciti e illeciti (abigeato
e contrabbando) nelle borgate palermitane, cioè
nell'area di agricoltura ricca che circondava la città
e che rappresentava anche il canale di collegamento
tra essa e la grande campagna latifondistica
circostante; dunque le organizzazioni mafiose delle
borgate si configuravano sin dall'inizio come
strettamente legate alla dimensione cittadina, ai suoi
apparati di potere, al complesso della sua storia.
In maniera paradossale, la mafia del latifondo
è emersa invece agli occhi dell'opinione pubblica in
un periodo più recente. La mafia dell'interno, cui in
genere ci si riferisce, quella del già citato Calogero
Vizzini, nacque in relazione al
fenomeno tipicamente novecentesco della disgregazione
dei grandi patrimoni latifondistici, della lotta
contadina per
la terra. La base del potere di Vizzini
risiedeva nelle cooperative che esso aveva costituito
per l'affitto e la spartizione dei latifondi, e anche sulla speculazione sui flussi finanziari così
attivati, nonché sul consenso che egli si guadagnò
favorendo amici e adepti nella redistribuzione di
queste terre. Da qui il carattere politico assunto dal
suo e da altri gruppi di mafia, il loro legame con la
Democrazia cristiana, le larghe clientele create in
molti paesi.
Non per questo la mafia delle borgate
palermitane cessò di esistere, e fu essa,
essenzialmente, a profittare delle nuove occasioni
offerte dall'espansione
edilizia cittadina a partire dagli anni
Cinquanta, la quale si realizzò proprio sui terreni e
nelle zone suburbane tradizionalmente da essa
controllate. Qui incontriamo le continuità storiche
più sorprendenti. La famiglia
Greco, che le cronache degli anni
1950-80 ci segnalano sempre nei posti decisionali di
Cosa nostra, era già da un secolo alla testa della
mafia palermitana. Iniziò con il controllo del
traffico degli agrumi nella borgata di Ciaculli, poi
si dedicò ad attività di intermediazione commerciale
e finanziaria e al traffico internazionale di tabacchi
e stupefacenti, coltivò rapporti con i politici
attraverso la gestione di appalti e il controllo delle
opere pubbliche, sfruttò insomma, tra gli anni
Cinquanta e anni Settanta, tutte le nuove occasioni di
profitto. Anche gli "imprenditori" della
mafia avevano questo retroterra di relazioni e
d'ambiente. E’ il caso ad esempio di un "uomo
nuovo" del dopoguerra come Francesco Vassallo: nato in una borgata palermitana e strettamente
imparentato con un'antica famiglia mafiosa del luogo,
salì progressivamente al rango di protagonista
nell'edilizia grazie ai rapporti con le grandi cosche
e con la Palermo che contava nella politica e negli
affari.
Gli anni Cinquanta non segnarono dunque una
mutazione genetica nel fenomeno mafioso, ma un
importante punto di svolta, da leggersi soprattutto in
relazione al consolidarsi di gruppi
politico-affaristici all'ombra del Comune di Palermo e
della Regione
siciliana; si pensi al modo in cui grazie al
rapporto con le istituzioni regionali si crearono le
grandi fortune delle società finanziarie dei cugini
Salvo, originariamente legati a un gruppo
mafioso di Salemi (paese del Trapanese) e poi al
centro di una serie di complesse reti di relazioni con
i più pericolosi gruppi della mafia palermitana.
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