La mafia come organizzazione
Come
già nell'Ottocento, ci sono oggi territori più o
meno sottoposti al controllo mafioso, e le cosche
stanno ben attente a difendere il loro territorio, a
controllare le attività economiche, a tenere lontani
i concorrenti e gli indisciplinati. Il sistema non
poteva e non può funzionare senza un livello di
concertazione permanente tra i mafiosi e tra le cosche
che dominano ogni singolo territorio, per decidere chi
proteggere e chi danneggiare, per emanare sanzioni
contro il delinquente che colpisce attività gestite
dagli amici o contro l'imprenditore che agisce senza
rispettare gli interessi degli amici; per stabilire la
stessa divisione dei settori e dei luoghi di attività
tra i mafiosi, che da violenti, sono spesso portati a
risolvere i loro contrasti con le armi, danneggiando
così l'andamento degli affari.
Franchetti e gli altri studiosi che un secolo
fa osservavano il fenomeno tendevano a non dare molta
importanza ai risultati investigativi già allora
conseguiti dalla polizia, che attribuiva la regìa di
molti dei delitti commessi nelle campagne intorno a
Palermo e ad Agrigento a una o più misteriose
organizzazioni segrete, denominate fratellanze.
Anche in periodi più recenti, molti altri studiosi
che guardavano alla mafia come a un costume popolare
regionale, hanno ritenuto che gli inquirenti
esagerassero. Essi pensavano che la famiglia fosse
sufficiente a spiegare il meccanismo della solidarietà
tra mafiosi. Ma il loro era un pregiudizio, cui può
essere contrapposta l'interpretazione formulata
all’inizio del Novecento da un grande giurista
palermitano, Santi Romano, secondo cui la mafia
sarebbe un ordinamento
giuridico, in certi casi alternativo,
più di frequente complementare a quello statale. Non
si trattava, come nel caso della faida,
dell'ordinamento generale
di una società primitiva, bensì di quello specifico
di un'organizzazione segreta, che poteva agire in una
realtà primitiva, se così possiamo definire la
Sicilia di metà Ottocento, o in un contesto assai più
moderno, come gli Stati Uniti o l'Italia di oggi.
Le risultanze dei processi recenti e delle più
antiche indagini ci danno in effetti il quadro di
compatte organizzazioni clandestine intente a
dividersi territori, a tramare delitti e affari, a
regolare le gerarchie interne, a nominare organismi
direttivi. E' evidente però che su quest’ultimo
aspetto non bisogna esagerare: le commissioni
direttive composte dai rappresentanti delle diverse cosche, di cui le indagini recenti e la ricerca storica ci
attestano l'esistenza nella Palermo di inizio secolo e
degli anni 1970-80, in Sicilia e negli Stati Uniti,
sono organismi instabili, suscettibili di spaccarsi
sotto i contrasti interni che danno luogo alle
micidiali guerre di mafia. Bisogna guardarsi dall'idea
del “grande e unico complotto”, dall'immagine
popolare di una “piovra”
con una testa e mille tentacoli, con una direzione
onnisciente e onnipotente, che talora ci è stata
semplicisticamente proposta dalle autorità, in
America come in Sicilia, in particolare nel corso
delle prime inchieste ottocentesche.
Non tutte le questioni, inoltre, possono in pratica
risolversi all'interno dell'organizzazione. I mafiosi
sono inseriti in relazioni d'affari che li collegano a
soggetti che alla mafia non appartengono né possono
appartenere: intermediari, criminali di ogni genere e
nazionalità, narcotrafficanti
turchi o cinesi, banchieri. Nella loro ambigua
funzione di “protettori” incrociano proprietari
fondiari, imprenditori e bottegai. Nel loro necessario
interrelarsi con la politica e le istituzioni si
accordano con notabili, politici, poliziotti e
giudici. Però certamente il tentativo, fortunatamente
non sempre riuscito, di regolamentazione interna delle
relazioni criminali e dei mercati illegali è
l'aspetto centrale del fenomeno.
Ad esprimere l'impressionante testimonianza
della continuità più che secolare di un certo tipo
di organizzazione segreta, tra Otto e Novecento, in
Sicilia e in America, sono i rituali
e i giuramenti
di mafia, del tutto identici nelle descrizioni
degli informatori della polizia conservate negli
archivi ottocenteschi, in vecchi libri scritti da
poliziotti e magistrati del secolo scorso, come nelle
recenti confessioni di pentiti
siciliani e americani o nelle
intercettazioni telefoniche e "ambientali".
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