Un fenomeno nuovo
per un nuovo Stato
All'indomani dell'Unità d'Italia il fenomeno
che in Sicilia venne detto mafia si presentò, agli
osservatori dei fatti sociali e agli uomini delle
neonate istituzioni statali, più complesso di quello
del banditismo
genericamente inteso.
Consideriamo le "reti" su cui si appoggiavano i
banditi, cioè l'insieme delle relazioni che essi
intrattenevano con la gente "normale". Esse
si estendevano verso il basso della scala sociale, cioè
verso contadini o poveracci, parenti o compaesani dei
latitanti, che davano informazioni, concorrevano a
collocare la merce rubata, partecipavano talora alle
azioni violente.
Ma queste reti andavano a toccare anche,
sorprendentemente, gli strati alti della società, i
proprietari fondiari e i notabili.
Il brigante siciliano non assomigliava per nulla alla
raffigurazione romantica del ribelle all'ordine
sociale, del Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai
poveri.
In che modo spiegare il contatto tra due sfere sociali, una
alta e una bassa, che secondo l'opinione comune
avrebbero dovuto mantenersi sempre ben distinte, in
particolare in un mondo classista come quello
dell'Ottocento? Perché i proprietari delle terre, i
nobili, gli imprenditori agricoli, i notai e talvolta
i sindaci dei paesi mantenevano rapporti amichevoli
coi banditi, li nascondevano nelle loro case di
campagna, li rifornivano di viveri e di armi? Come mai
gli amici dei banditi si trovavano così spesso
impiegati nelle aziende agrarie con funzione di
sorveglianti (campieri)
e godevano della benevolenza dei proprietari, spesso
della loro raccomandazione per la concessione del
porto d'armi da parte della polizia o per un
trattamento di favore quando finivano in tribunale
imputati di qualche reato? Come si spiegava il fatto
che nelle zone del latifondo
della Sicilia centro-occidentale l'affitto delle
terre, cioè la direzione delle imprese agricole,
venisse sempre affidato a gabellotti
(affittuari) che appartenevano a questo mondo
ambiguo, ai margini della legalità?
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