Alle origini della rete mafiosa:
il caso Giammona
Proviamo a seguire un caso concreto nella
Palermo della prima metà dell'Ottocento, a partire
dalla descrizione di una rete, che dalla capitale
dell'isola si estendeva verso la sua vasta provincia.
Il primo reticolo corrispondeva ad Antonino Giammona.
Un documento ce lo descrive "poverissimo"
sino al 1848, dopo di che, "briganteggiando sotto
il vessillo della rivoluzione",
egli divenne affittuario di agrumeti, proprietario di
terreni e immobili acquistati nelle vendite demaniali del periodo postunitario, nonché titolare di
un'azienda di pastorizia, raggiungendo uno stadio di
notevole agiatezza economica. Nel 1860 Giammona venne
nominato capitano della guardia nazionale, e come tale
fu il protagonista del "ritorno dell'ordine"
nel territorio palermitano, dopo i rivolgimenti
politici di quell'anno. Da quel momento, affermava
compiaciuto il suo
avvocato, Francesco
Gestivo, egli utilizzò la sua
"autorità morale" per mettersi alla guida
di una "lega degli abbienti contro i non
abbienti", cioè dei ricchi contro i poveri.
Ma la pace con i metodi della mafia crea più caos di
quanto ne eviti. Giammona dava "rifugio e
protezione" nella zona da lui controllata a
diversi latitanti, però davanti a un tentativo di
estorsione messo in atto da costoro contro importanti
proprietari della zona non esitò a perpetrare una
vera strage tra i suoi indisciplinati ospiti. Nella
borgata dell'Uditore, territorio coltivato ad agrumi
vicinissimo a Palermo, nessuno poteva gestire aziende
agrarie, comprare e vendere terreni e merci, senza il
suo permesso. I proprietari che non volevano
sottostare a questa regola subivano danneggiamenti di
ogni genere ed erano costretti a vendere. Gabellotti
e guardiani estranei alla sua organizzazione venivano
invece uccisi senza pietà. La compattezza del suo
gruppo era mantenuta dai rituali e dai giuramenti
che già conosciamo. Ma soprattutto Giammona
puntava sul coordinamento con gli altri gruppi della
mafia palermitana ottocentesca.
Fonti di polizia lo descrivono, alla fine del
secolo, a capo di una commissione dirigente gli affari
comuni. Altre informazioni ce lo dipingono intento a
mantenere rapporti con i briganti e i gabellotti
dell'area interna della provincia.
Nel reticolo mafioso, da Giammona si dipanavano
dunque tre fili: verso il basso -la criminalità-;
verso i suoi pari -gli altri leader della mafia-;
verso l'alto -gli uomini eminenti che lo proteggevano
e erano da lui protetti. Quest'ultimo filo portava
soprattutto al barone Nicolò Turrisi Colonna, grande
proprietario moderno e illuminato nella gestione delle
sue aziende, cultore di studi agronomici, patriota
prima dell'Unità e poi esponente di punta della
sinistra moderata, senatore e sindaco di Palermo. Nel
1860 egli era a capo della guardia nazionale cittadina
nella quale Giammona prestava servizio come ufficiale:
di questo rapporto, rimasto solido anche nel periodo
seguente, ci restano lettere dello stesso senatore,
che attestava la sua amicizia al capo-mafia quando
questi si trovava nei guai con la giustizia. Del resto
anche a Castelbuono, il paese dell'interno dove il
padre era stato gabelloto, Turrisi si serviva di
campieri qualificati come mafiosi dalle autorità di
polizia. In una sua proprietà nel 1874 fecero
irruzione le forze dell'ordine alla ricerca di una
banda di latitanti, suscitando però le sue proteste
per la presunta persecuzione politica contro di lui;
dopo quest'episodio il prefetto Rastelli confidò a
Franchetti di considerare conclusa la propria carriera
a Palermo.
Il caso descritto, di per sè importante nella
storia della mafia, è esemplare perché vi troviamo
molti degli elementi che caratterizzano tuttora la
nostra problematica: la scalata sociale che porta il
delinquente nei ranghi della gente (quasi) per bene;
la funzione protettiva della mafia, che garantisce ma
anche ostacola le attività economiche; il delitto
commesso per perpetuare lo strapotere territoriale
della cosca;
l’organizzazione che su base federativa si allarga a
sempre più vasti territori; il rapporto organico col
potere politico e con quello sociale; la
giustificazione ideologica fornita dagli avvocati e
dagli intellettuali collusi.
A seconda delle circostanze Giammona fu tollerato o
combattuto dal potere ufficiale; per uno come lui, che
restò in sella per un quarantennio, molti altri
finirono in prigione, confinati su isolette come
Ustica e Favignana per disposizione dei questori, o
uccisi dagli avversari. E' evidente che l'oscillazione
delle politiche criminali adottate dall'autorità di
polizia dipendeva dai giochi della politica, dal
rapporto col governo dei vari protettori dei mafiosi.
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